Rime (Barbi edition)

RIME a cura di Michele Barbi
LIBRO PRIMO
RIME DELLA VITA NUOVA


I.
DANTE AI FEDELI D’AMORE.
A ciascun’ alma presa e gentil core
[Vita Nuova, § III, pag. 6].


II.
GUIDO CAVALCANTI A DANTE IN RISPOSTA AL SONETTO I.

Vedeste, al mio parere, onne valore
e tutto gioco e quanto bene oni sente,
se foste in prova del segnor valente
che segnoreggia il mondo de l’onore,
poi vive in parte dove noia more
e ten ragion nel casser de la mente :
sì va soave per sonni a la gente,
che i cor ne porta sanza far dolore.

Di voi lo core ne portò, veggendo
che nostra donna la morte chedea ;
nodrilla de lo cor, di ciò temendo.
Quando v’apparve che ne gia dogliendo,
fu dolce sonno ch’allor si compiea,
che ’l su’ contraro lo venia vincendo.


 III.
CINO DA PISTOIA (O TERINO DA CASTELFIORENTINO) A DANTE IN RISPOSTA AL SONETTO I.

Naturalmente chere ogni amadore
di suo cor la sua donna far saccente,
e questo per la vision presente
intese di mostrare a te l’Amore
in ciò che de lo tuo ardente core
pascea la tua donna umilemente,
che lungamente statu era dormente,
involta in drappo, d’ogne pena fore.

Allegro si mostrò Amor, venendo
a te per darti ciò che ’l cor chiedea,
insieme due coraggi comprendendo ;
e l’amorosa pena conoscendo
che ne la donna conceputo avea,
per pietà di lei pianse partendo.


 IV.
DANTE DA MAIANO A DANTE ALIGHIERI IN RISPOSTA AL SONETTO I.

Di ciò che stato sei dimandatore,
guardando, ti rispondo brevemente,
amico meo di poco canoscente,
mostrandoti del ver lo suo sentore.
Al tuo mistier così son parlatore:
se san ti truovi e fermo de la mente,
che lavi la tua coglia largamente,
a ciò che stinga e passi lo vapore
lo qual ti fa favoleggiar loquendo;
e se gravato sei d’infertà rea,
sol c’hai farneticato, sappie, intendo.
Così riscritto el meo parer ti rendo;
nè cangio mai questa sentenza mea,
fin che tua acqua al medico no stendo.


V.
O voi che per la via d’Amor passate
[Vita Nuova, § VII.]


VI.
Piangete, amanti, poi che piange Amore
[Vita Nuova, § VIII]


VII.
Morte villana, di pietà nemica
[Vita Nuova, § VIII]


VIII.
Cavalcando l’altr’ ier per un cammino
[Vita Nuova, § IX]


IX.
Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore
[Vita Nuova, § XII]


X.
Tutti li miei penser parlan d’Amore
[Vita Nuova, § XIII]


XI.
Con l’altre donne mia vista gabbate
[Vita Nuova, § XIV]


XII.
Ciò che m’ incontra, ne la mente more
[Vita Nuova, § XV]


XIII.
Spesse fiate vegnonmi a la mente
[Vita Nuova, § XVI]


XIV.
Donne ch’ avete intelletto d’amore
[Vita Nuova, § XIX]


XV.
RISPOSTA D’ANONIMO ALLA CANZONE XIV IN NOME DELLE DONNE E DELLA CANZONE.

Ben aggia l’amoroso e dolce core
che vol noi donne di tanto servire,
che sua dolze ragion ne face audire,
la quale e piena di piacer piagente;
che ben è stato bon conoscidore,
poi quella dov’ è fermo lo disire
nostro per donna volerla seguire,
perchè di noi ciascuna fa saccente,
ha conosciuta perfettamente
e ’nclinatosi a lei col core umile ;
che di noi catuna il dritto istile
terra, pregando ognora dolzemente
lei cui s’è dato, quando fia con noi,
ch’abbia merzè di lui co gli atti suoi.

Ahi Deo, com’ have avanzato ’l su’ detto
partendolo da noi in alta sede!
e com’ have ’n sua laude dolce fede,
che ben ha cominzato e meglio prende!
Torto seria tal omo esser distretto
o malmenato di quella al cui pede
istà inclino, e sì perfetto crede,
dicendo sì pietoso, e non contende,
ma dolci motti parla, ch’accende
li cori d’amor tutti e dolci face ;
che di noi nessuna donna face,
ma prega Amor che quella a cui s’arrende
sia a lui umiliata in tutti lati
dov’udirà li suoi sospir gittati.

Per la vertù che parla, dritto ostelo
conoscer può ciascun ch’ e di piacere,
che ’n tutto vol quella laude compiere
c’ ha cominzata per sua cortesia ;
ch’ unqua vista nè voce sott’ un velo
vertudiosa come ‘I suo cherere
non fu ned è, per che de’ orn teuere
per nobil cosa ciò che dir disia :
chè conosciuta egli ha la dritta via,
che le sue parole son compiute.
Noi donne sem di ciò in accordo essute,
che di piacer la nostra donna tria;
e sì l’avem per tale innamorato,
ch’Amor preghiam per lui in ciascun lato.

Audite ancor quant’ e di pregio e vale :
che ’n far parlare Amor sì s’ assicura
che conti la bieltà ben a drittura
da lei dove ’l su’ cor vol che si fova.
Ben se ne porta com’ om naturale,
nel sommo ben disia ed ha sua cura,
nè in altra vista, crede nè in pintura,
nè non attende nè vento nè plova ;
per che faria gran ben sua donna, po’ v’ ha
tanta di fè, guardare a li suoi stati;
poi ched egli è infra gl’ innamorati
quel che ’n perfetto amar passa, e più gio’ v’ ha ;
noi donne il metteremmo in paradiso,
udendol dir di lei c’ ha lui conquiso.

– Io anderò, nè non già miga in bando;
in tale guisa sono accompagnata,
che si mi sento bene assicurata,
ch’ i’ spero andare e redir tutta sana.

Son certa ben di non irmi isviando,
ma in molti luoghi sarò arrestata :
pregherolli di quel che m’ hai pregata,
fin ched i’ giugnerò a la fontana
d’ insegnamento, tua donna sovrana.
Non so s’ io mi starò semmana o mese,
o se le vie mi saranno contese :
girò al tu’ piacer presso e lontana ;
ma d’ esservi già giunta io amerei,
perche ad Amor ti raccomanderei. –


 XVI.
Amore e ’l cor gentil sono una cosa
[Vita Nuova, § XX]


XVII.
Ne li occhi porta la mia donna Amore
[Vita Nuova. § XXI]


XVIII.
Voi che portate la sembianza umile
[Vita Nuova, § XXII]


XIX.
Se’ tu colui c’ hai trattato sovente
[Vita Nuova, § XXII]


XX.
Donna pietosa e di novella etate
[Vita Nuova, § XXIII]


 XXI.
Io mi senti’ svegliar dentro a lo core
[Vita Nuora, § XXIV]


XXII.
Tanto gentile e tanto onesta pare
[Vita, Nuova, § XXVI]


XXIII.
Vede perfettamente onne salute
[Vita Nuova, § XXVI]


XXIV.
Sì lungiamente m’ ha tenuto Amore
[Vita Nuova, § XXVII]


XXV.
Li occhi dolenti per pietà del core
[Vita Nuova, S XXXI]


XXVI.
Venite a intender li sospiri miei
[Vita Nuova, § XXXII]


XXVII.
Quantunque volte, lasso!, mi rimembra
[Vita Nuova, § XXXIII]


XXVIII.
CINO DA PISTOIA A DANTE PER CONSOLARLO DELLA MORTE DI BEATRICE.

Avvegna ched el m’aggia più per tempo
per voi richesto Pietate e Amore
per confortar la nostra grave vita,
non è ancora sì trapassato il tempo
che ‘l mio sermon non trovi il vostro core
piangendo star con l’anima smarrita,
fra sè dicendo : « Già sete in ciel gita,
beata gioia, com chiamava il nome!

Lasso me! quando e come,
veder vi potrò io visibilmente?»;
sì ch’ ancora a presente
vi posso fare di conforto aita.
Donque m’ odite, poi ch’ io parlo a posta
d’Amor, a li sospir ponendo sosta.

Noi provamo che ’n questo cieco mondo
ciascun si vive in angosciosa noia,
chè in onne avversità ventura ’l tira.
Beata l’ alma che lassa tal pondo
e va nel cielo ov’ e compiuta gioia,
gioioso ’l cor for di corrotto e d’ ira !
Or donque di che ’l vostro cor sospira,
che rallegrar si de’ del suo migliore ?
Chè Dio, nostro signore,
volse di lei, com’ area l’ angel detto,
fare il cielo perfetto.
Per nova cosa onne santo la mira,
ed ella sta davanti a la Salute
ed inver lei parla onne Vertute.

Di che vi stringe ’l cor pianto ed angoscia,
che dovresti d’ amor sopragioire,
ch’ avete in del la mente e l’ intelletto ?
Li vostri spirti trapassar da poscia
per sua vertù nel ciel; tal e ’l disire,
ch’Amor lassù li pinge per diletto.
O omo saggio, perchè sì distretto
vi tien così l’ affannoso pensero ?
Per suo onor vi chero
ch’ a l’ egra mente prendiate conforto,
ne aggiate più cor morto
ne figura di morte in vostro aspetto :
perche Dio l’ aggia locata fra i soi,
ella tuttora dimora con voi.

Conforto, già, conforto l’Amor chiama,
e Pietà priega « Per Dio, fate resto! » ;
or inchinate a sì dolce preghera.
Spogliatevi di questa vesta grama,
da che voi sete per ragion richesto ;
che l’ omo per dolor more e dispera.
Com voi vedresti poi la bella cera
se v’ accogliesse morte in disperanza?
Di sì grave pesanza
traete il vostro core omai per Dio,
che non sia così rio
ver l’alma vostra, che ancora spera
vederla in cielo e star ne le sue braccia
donque spene di confortar vi piaccia.

Mirate nel piacer dove dimora
la vostra donna ch’ è ’n del coronata;
ond’ è la vostra spene in paradiso,
e tutta santa omai vostr’ innamora,
contemplando nel ciel mente locata.
Lo core vostro per cui sta diviso,
che pinto tene ’n sè beato viso ?
Secondo ch’ era qua giù meraviglia,
così là su somiglia,
e tanto più quant’ e me’ conosciuta.
Come fu ricevuta
da gli angeli con dolce canto e riso,
gli spirti vostri rapportato l’ hanno,
che spesse volte quel viaggio fanno.

Ella parla di voi con li beati,
e dice loro : «Mentre ched io fui
nel mondo, ricevei onor da lui,
laudando me nei suo’ detti laudati ».
E priega Dio, lo signor verace,
che vi conforti si come vi piace.


XXIX.
GUIDO CAVALCANTI A DANTE.

I’ vegno il giorno a te infinite volte
e trovote pensar troppo vilmente :
molto mi dol de la gentil tua mente
e d’ assai tue vertù che ti son tolte.
Solevanti spiacer persone molte,
tuttor fuggivi l’ annoiosa gente ;
di me parlavi sì coralemente,
che tutte le tue rime avie ricolte.

Or non ardisco per la vil tua vita
far mostramento che tuo dir mi piaccia,
nè in guisa vegno a te che tu mi veggi.
Se ‘l presente sonetto spesso leggi,
lo spirito noioso che t’ incaccia
si partirà da l’ anima invilita.


XXX.
Era venuta ne la mente mia
[Vita Nuava, § XXXIV]


XXXI.
Videro li occhi miei quanta pietate
[Vita Nuova, § XXXV]


XXXII.
Color d’ amore e di pietà sembianti
[Vita Nuova, § XXXVI]


XXXIII.
L’ amaro lagrimar che voi faceste
[Vita Nuava, § XXXVII]


XXXIV.
Gentil pensero che parla di vui
[Vita Nuova, § XXXVIII]


XXXV.
Lasso! per forza di molti sospiri
[Vita Nuova, § XXXIX]


XXXVI.
Deh peregrini che pensosi andate
[Vita Nuova, § XL]


XXXVII.
Oltre la spera che più larga
[Vita Nuova, § XLI]


XXXVIII.
CECCO ANGIOLIERI A DANTE A PROPOSITO DEL SONETTO XXXVII.

Dante Allaghier, Cecco, ‘l tu’ servo e amico,
si raccomanda a te com’ a segnore :
e sì ti prego per lo dio d’ amore,
lo qual è stato un tu’ signor antico,
che mi perdoni s’ i’ spiacer ti dico,
chè mi dà sicurtà ‘l tu’ gentil core :
quel ch’ i’ ti dico e di questo tenore,
ch’ al tu’ sonetto in parte contradico.

Ch’ al meo parer, nè l’una muta dice
che non intendi su’ sottil parlare,
a que’ che vide la tua Beatrice ;
e puoi hai detto a le tue donne care
che tu lo ‘ntendi ; e dunque contradice
a se medesmo quest d tu’ trovare.


LIBRO SECONDO
ALTRE RIME DEL TEMPO DELLA VITA NUOVA

XXXIX.
DANTE DA MAIANO A DIVERSI RIMATORI

Provedi, saggio, ad esta visione,
e per mercè ne trai vera. sentenza.
Dico : una donna di bella fazone,
di cu’ el meo cor gradir molto s’agenza,
mi fe d’ una ghirlanda donagione,
verde, fronzuta, con bella accoglienza :
appresso mi trovai per vestigione
camicia di suo dosso, a mia parvenza.

Allor di tanto, amico, mi francai,
che dolcemente presila abbracciare:
non si contese, ma ridea la bella.
Così, ridendo, molto la baciai :
del più non dico, chè mi fè giurare.
E morta, ch’ è mia madre, era con ella.


 XL.
RISPOSTA DI DANTE ALIGHIERI.

Savete giudicar vostra ragione,
o om che pregio di saver portate;
per che, vitando aver con voi quistione,
com so rispondo a le parole ornate.
Disio verace, u’ rado fin si pone,
che mosse di valore o di bieltate,
imagina l’amica oppinione
significasse il don che pria narrate.

Lo vestimento, aggiate vera spene
che fia, da lei cui desiate, amore:
e ‘n ciò provide vostro spirto bene;
dico, pensando l’ovra sua d’ allore.
La figura che già morta sorvene
e la fermezza ch’ averà nel core.


XLI.
DANTE DA MAIANO A DANTE ALIGHIERI.

Per pruova di saper com vale o quanto
lo mastro l’ oro, adducelo a lo foco ;
e, ciò faccendo, chiara e sa se poco,
amico, di pecunia vale o tanto.
Ed eo, per levar prova del meo canto,
I’ adduco a voi, cui paragone voco
di ciascun c’ have in canoscenza loco,
o che di pregio porti loda o vanto.

E chero a voi col meo canto più saggio
che mi deggiate il dol maggio d’Amore
qual’ è, per vostra scienza, nominare :
e ciò non movo per quistioneggiare
(che già inver voi so non avria valore),
ma per saver ciò ch’ eo vaglio e varraggio.


XLII.
DANTE ALIGHIERI A DANTE DA MAIANO.

Qual che voi siate, amico, vostro manto
di scienza parmi tal, che non è gioco ;
sì che per non saver, d’ ira mi coco,
non che laudarvi, sodisfarvi tanto.
Sacciate ben (ch’ io mi conosco alquanto)
che di saver ver voi ho men d’ un moco,
nè per via saggia come voi non voco,
così parete saggio in ciascun canto.

Poi piacevi saver lo meo coraggio,
e io ‘l vi mostro di menzogna fore,
sì come quei ch’ a saggio e ‘l suo parlare :
certanamente a mia coscienza pare,
chi non è amato, s’ elli è amadore,
che ‘n cor porti dolor senza paraggio.


XLIII.
DANTE DA MAIANO A DANTE ALIGHIERI.

Lo vostro fermo dir fino ed orrato
approva ben ciò bon ch’ om di voi parla,
ed ancor più, ch’ ogni uom fora gravato
di vostra loda intera nominarla ;
chè ‘l vostro pregio in tal loco è poggiato,
che propiamente om nol poria contarla :
però quäl vera loda al vostro stato
crede parlando dar, dico disparla.

Dite ch’ amare e non essere amato
ene lo dol che più d’Amore dole,
e manti dicon che più v’ ha dol maggio :
onde umil prego non vi sia disgrato
vostro saver che chiari ancor, se vole,
se ‘l vero, o no, di ciò mi mostra saggio.


XLIV.
DANTE ALIGHIERI A DANTE DA MAIANO.

Non canoscendo, amico, vostro nomo,
donde che mova chi con meco parla,
conosco ben ch’ è scienza di gran nomo,
sì che di quanti saccio nessun par l’ à ;
che si pò ben canoscere d’ un omo,
ragionando, se ha senno, che ben par là ;
conven poi voi laudar sanza far nomo,
e forte a lingua mia. di ciò com parla.

Amico (certo sonde, acciò ch’ amato
per amore aggio), sacci ben chi ama,
se non è amato, lo maggior dol porta ;
che tal dolor ten sotto suo camato
tutti altri, e capo di ciascun si chiama :
da ciò ven quanta pena Amore porta.


XLV.
DANTE DA MAIANO A DANTE ALIGHIERI.

Lasso! lo dol che più mi dole e serra
è ringraziar, ben non sapendo como ;
per me più saggio converriasi, como
vostro saver, ched ogni quistion serra.
Del dol che manta gente dite s’ erra
e tal voler qual voi lor non ha como ;
el proprio sì disio saver dol como,
di ciò sovente, dico, essendo a serra.

Però pregh’ eo ch’ argomentiate, saggio,
d’ autorità mostrando ciò che porta
di voi la ‘mpresa, acciò che sia più chiara ;
e poi parrà, parlando di ciò, chiara,
quale più chiarirem dol pena porta,
d’ ello assegnando, amico, prov’ e saggio.


XLVI.
DANTE DA MAIANO A DANTE ALIGHIERI.

Amor mi fa fedelmente amare
e sì distretto m’ have en suo disire,
che solo un’ ora non poria partire
lo core meo da lo suo pensare.
D’Ovidio ciò mi son miso a provare
che disse per lo mal d’Amor guarire,
e ciò ver me non val mai che mentire ;
per ch’ eo mi rendo a sol merzè chiamare.

E ben conosco omai veracemente
che ‘nverso Amor non val forza ned arte,
ingegno nè leggenda ch’ omo trovi,
mai che merzede ed. esser sofferente
e ben servir ; così n’ have omo parte.
Provedi, amico saggio, se l’approvi.


XLVII.
RISPOSTA DI DANTE ALIGHIERI A DANTE DA MAIANO.

Savere e cortesia, ingegno ed arte,
nobilitate, bellezza e riccore,
fortezza e umiltate e largo core,
prodezza ed eccellenza, giunte e sparte,
este grazie e vertuti in onne parte
con lo piacer di lor vincono Amore :
una più ch’ altra ben ha più valore
inverso lui, ma ciascuna n’ ha parte.

Onde se voli, amico, che ti vaglia
vertute naturale od accidente,
con lealtà in piacer d’Amor l’adovra,
e non a contastar sua graziosa ovra ;
che nulla cosa gli e incontro possente,
svolendo prender om con lui battaglia.


XLVIII.
A LIPPO (PASCI DEI BARDI (?) PER ACCOMPAGNARGLI LA STANZA CHE SEGUE.

Se Lippo amico se’ tu che mi leggi,
davanti che proveggi
a le parole che dir ti prometto,
da parte di colui che mi t’ ha scritto
in tua balia mi metto

e recoti salute quali eleggi.
Per tuo onor audir prego mi deggi
e con l’ udir richeggi
ad ascoltar la mente e lo ‘ntelletto :
io che m’ appello umile sonetto,

davanti al tuo cospetto
vegno, perche al non caler [non] feggi.
Lo qual ti guido esta pulcella nuda,
che ven di dietro a me si vergognosa,
ch’ a torno gir non osa,

perch’ ella non ha vesta in che si chiuda :
e priego il gentil cor che ‘n te riposa
che la rivesta e tegnala per druda,
si che sia conosciuda
e possa andar là ‘vunque e disiosa.


XLIX.

Lo meo servente core
vi raccomandi Amor, [che] vi l’ ha dato,
e Merzè d’ altro lato
di me vi rechi alcuna rimembranza :
che del vostro valore
avanti ch’ io mi sia guari allungato,
mi tien già confortato
di ritornar la mia dolce speranza.
Deo, quanto fie poca addimoranza,
secondo il mio parvente!
che mi volge sovente
la mente per mirar vostra sembianza :
per che ne lo meo gire e addimorando,
gentil mia donna, a voi mi raccomando.


L.

La dispietata mente, che pur mira
di retro al tempo che se n’ e andato,
da l’ un de’ lati mi combatte il core ;
e ‘l disio amoroso, che mi tira
ver lo dolce paese c’ ho lasciato,
d’ altra part’ e con la forza d’Amore ;
ne dentro i’ sento tanto di valore,
che lungiamente i’ possa far difesa,
gentil madonna, se da voi non vene:
però, se a voi convene
ad iscampo di lui mai fare impresa,
piacciavi di mandar vostra salute,
che sia conforto de la sua, virtute.

Piacciavi, donna mia, non venir meno
a questo punto al cor che tanto v’ ama,
poi so! da voi lo suo soccorso attende ;
che buon signor giä non ristringe freno
per soccorrer lo servo quando ‘l chiama,
che non pur lui, ma suo onor difende.
E certo la sua doglia piü m’ incende,
quand’ i’ mi penso ben, donna, che vui
per man d’Amor la entro pinta sete :
così e voi dovete
vie maggiormente aver cura di lui ;
che que’ da cui eonvien che ‘l ben s’ appari,
per l’imagine sua lie tien piü cari.

Se dir voleste, doloe mia speranza,
di dare indugio a quel ch’ io vi domando,
sacciate che l’attender io non posso ;
ch’ i’ sono al fine de la mia possanza.
E ciò conoscer voi dovete, quando
l’ultima speme a cercar mi son mosso ;
che tutti incarchi sostenere a dosso
de’ l’uomo infin al peso ch’ e mortale,
prima che ‘l suo maggiore amico provi,
poi non sa qual lo trovi :
e a’ elli avven che li risponda male,
cosa non e che costi tanto cara,
che morte n’ ha pivi tosto e piü amara.

E voi pur sete quella ch’ io più amo,
e che far mi potete maggior dono,
e ‘n cui la mia speranza più riposa ;
che sol per voi servir la vita Kramo,
e quelle cose che a voi onor sono
dimando e voglio ; ogni altra m’ è noiosa.
Dar mi potete ciò ch’ altri non m’ osa,
che ‘l si e ‘l no di me in vostra mano
ha posto Amore; orid’ io grande mi tegno.
La fede ch’ eo v’ assegno
muove dal portamento vostro umano ;
che ciascun che vi mira, in veritate
di fuor conosce che dentro e pietate.
Dunque vostra salute omai si mova.
e vegna dentro al cor, che lei aspetta,
gentil madonna, come avete inteso :
ma sappia che l’entrar di lui si trova
serrato forte da quella saetta
ch’Amor lanciò lo giorno ch’ i’ fui preso ;
per che l’entrare a tutt’ altri e conteso,
fuor ch’ a’ messi d’Amor, ch’ aprir lo sanno
per volontà de la vertu che ‘l serra :
onde ne la mia guerra
la sua venuta mi sarebbe danno,
sed ella fosse sanza compagnia
de’ messi del signor che m’ ha in balia.

Canzone, il tuo cammin vuol esser corto ;
che tu sai ben die poco tempo omai
puote aver luogo quel per che tu vai.


LI.

Non mi poriano già mai fare ammenda
del lor gran fallo gli occhi miei sed elli
non s’ accecasser, poi la Garisenda
torre miraro co’ risguardi belli,
e non conobber quella (mal lor prenda!)
ch’ è la maggior de la qual si favelli :
però ciascun di lor voi che m’ intenda
che già mai pace non farò con elli;
poi tanto furo, che ciö che sentire
doveano a ragion senza veduta,
non conobber vedendo ; onde dolenti
son li miei spirti per lo lor fallire,
e dico ben, se ‘l voler non mi muta,
ch’ eo stesso Ii uccidrò que’ scanoscenti!


LII.

DANTE A GUIDO CAVALCANTI.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ‘l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’ e sul mimer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore :
e quivi ragionar sempre d’ amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.


LIII.

RISPOSTA DI GUIDO.

S’ io fosse quelli che d’ amor fu degno,
del qual non trovo sol che rimembranza,
e la donna tenesse altra sembianza,
assai mi piaceria fatto legno.
E tu, che se’ de I’ amoroso regno
là onde di merze nasce speranza,
riguarda se ‘l mio apirito ha pesanza,
ch’ un prest’ arcier di lui ha fatto segno,

e tragge l’ arco che li tese Amore,
sì lietamente, che la sua persona
par che di gioco porti signoria.
Or odi maraviglia ch’ el disia :
lo spirito fedito li perdona,
vedendo che li strugge il suo valore.


LIV.

GUIDO CAVALCANTI A DANTE.

Se vedi Amore, assai ti priego, Dante,
in parte là ‘ve Lapo sia presente,
che non ti gravi di por sì la mente,
che mi riscrivi s’ e’ lo chiama amante,
e se la donna li sembla avenante
che si le mostr’ avvinto fortemente ;
che molte fiate così fatta gente
snol per gravezza d’ amor far sembiante.

Tu sai che ne la corte là ‘ve regna
non vi può servir omo che sia vile
a donna che là dentro sia renduta.
Se la soffrenza lo servente aiuta,
può di leggier cognoscer nostro sire,
lo quale porta di merzede insegna.


LV.

GUIDO CAVALCANTI A DANTE.

Dante, un sospiro messaggier del core
subitamente m’ assalì in dormendo,
e io mi disvegliai allor temendo
ched e’ non fosse in compagnia d’Amore.
Poi mi girai, e vidi il servitore
di monna Lagia, che venia dicendo :
« Aiutami, Pitta! » ; sì che piangendo
i’ presi di Merze tanto valore,
ch’ i’ giunsi Amore, ch’ affillava i dardi.
   

Allor lo domandai del suo tormento ;
ed elli mi rispuose in questa guisa :
« Dì al servente che la donna è prisa,
e tengola per far suo piacimento ;
e se nol crede, dì ch’ a li occhi guardi ».


LVI.

Per una ghirlandetta
ch’ io vidi, mi farà
sospirare ogni fiore.

I’ vidi a voi, donna, portare
ghirlandetta di fior gentile,
e sovr’ a lei vidi volare
un angiolel d’ amore umile ;
e ‘n suo cantar sottile
dicea : « Chi mi vedrà
lauderà ‘l mio signore ».

Se io sarò là dove sia
Fioretta mia bella [a sentire],
allor dirò la donna mia
che port’ in testa i miei sospire.
Ma per crescer disiro
mia donna verrä
eoronata da Amore.

Le parolette mie novelle,
che di flori fatto han ballata,
per leggiadria ci hanno tolt’ elle
una vesta ch’ altrui fu data :
però siate pregata,
qual uom la canterà,
che li facciate onore.


LVII.

Madonna, quel signor che voi portate
ne gli occhi, tal che vince ogni possanza
mi dona sicuranza
che voi sarete amica di pietate ;
però che là dov’ ei fa dimoranza,
ed ha in compagnia molta beltate,
tragge tutta bontate
a sè, come principio c’ ha possanza.
Ond’ io conforto sempre mia speranza,
la qual è stata tanto combattuta,
che sarebbe perduta,
se non fosse che Amore
contro ogni avversitä le da valore
con la sua vista e con la rimembranza
del dolce loco e del soave fiore
che di novo colore
cerchio la mente rnia,
merzè di vostra grande cortesia.


LVIII.

Deh, Violetta, che in ombra d’Amore
negli occhi miei sì subito apparisti,
aggi pietà del cor che tu feristi,
che spera in te e disiando more.
Tu, Violetta, in forma più che umana,
foco mettesti dentro in la mia mente
col tuo piacer ch’ io vidi ;
poi con atto di spirito cocente
creasti speme, che in parte mi sana
là dove tu mi ridi.
Deh non guardare perchè a lei mi fidi,
ma drizza li occhi al gran disio che m’arde,
chè mille donne già, per esser tarde
sentiron pena de l’ altrui dolore.


LIX .

Volgete li occhi a veder chi mi tira,
per ch’ i’ non posso più venir con vui,
e onoratel, che questi è colui
che per le gentil donne altrui martira.
La sua vertute, ch’ ancide sanz’ ira,
pregatel che mi laghi venir pui,
ed io vi dico, de li modi sui
cotanto intende quanto 1′ om sospira :
ch’ elli m’ e giunto fero ne la mente,
e pingevi una donna sì gentile,
che tutto mio valore a’ piè le corre;
e fammi udire una voce sottile
che dice : «Dunque vuo’ tu per neente
a li occhi tuoi sì bella donna torre ?».


LX.

Deh ragioniamo insieme un poco, Amore,
e tra’mi d’ ira, che mi fa pensare ;
e se vuol 1′ un de 1′ altro dilettare,
trattiam di nostra donna omai, signore.
Certo il viaggio ne parrà minore
prendendo un così dolze tranquillare,
e già, mi par gioioso il ritornare,
audendo dire e dir di suo valore.

Or incomincia, Amor, che si convene,
e moviti a far ciò ch’ e la cagione
che ti dichini a farmi compagnia,
o vuol merzede o vuol tua cortesia;
che la mia mente il mio penser dipone,
cotal disio de l’ ascoltar mi vene.


LXI.

Sonar bracchetti, e caeciatori aizzare,
lepri levare, ed isgridar le genti,
e di guinzagli uscir veltri correnti,
per belle piagge volgere e imboccare
assai credo che deggia dilettare
libero core e van d’ intendimenti !
Ed io, fra gli amorosi pensamenti,
d’ uno sono schernito in tale affare,

e dicemi esto motto per usanza :
«Or ecco leggiadria di gentil core,
per una si selvaggia dilettanza
lasciar le donne e lor gaia sembianza!»
Allor, temendo non che senta Amore,
prendo vergogna, onde mi ven pesanza.


LXII.

Com più vi fere Amor co’ suoi vincastri,
più li vi fato in ubidirlo presto,
ch’ altro consiglio, ben lo vi protesto,
non vi si può già dar : chi vuol l’ incastri.
Poi, quando fie stagion, coi dolci impiastri
farà stornarvi ogni tormento agresto,
chè ‘1 mal d’ Amor non e pesante il sesto
ver ch’ è dolce lo ben. Dunque ormai lastri

vostro cor lo cammin per seguitare
lo suo sommo poder, se v’ ha sì punto
come dimostra ‘1 vostro buon trovare ;
e non vi disviate da lui punto,
ch’ elli sol può tutt’ allegrezza dare
e suoi serventi meritare a punto.


LXIII.

Sonetto, se Meuccio t’ è mostrato,
così tosto ‘1 saluta come ‘1 vedi,
e va correndo e gittaliti a’ piedi,
si che til paie bene accostumato.
E quando se’ con lui un poco stato,
anche ‘l risalutrai, non ti ricredi;
e poscia a l’ambasciata tua procedi,
ma fa che ‘1 tragghe prima da un lato ;

e di : « Meuccio, que’ che t’ ama assai
de le sue gioie piü care ti manda,
per accontarsi al tu’ coraggio bono ».
Ma fa che prenda per lo primo dono
questi tuo’ frati, e a lor si comanda
che stean con lui e qua non tornin mai.


LXIV.

GUIDO ORLANDI RISPOSTA A UN SONETTO CHE GLI MANDÖ DANTE.

Poi che traesti infino al ferro l’arco
ver lo stecchetto e non desti di sovra,
motto ne caso volentier ti parco ;
voglio cangiare a te la rima e l’ovra.
Di si gran peso ti levasti carco,
che ben bon abachisto nol ti novra ;
e «’ io f insegno passar questo varco,
sì che ‘l soverchio non vi ti discovra,

non povramente guadagnar ne voglio
anzi per rima più te ne riscriva :
e dico a te che lasci star l’ orgoglio,
e t’ assomigli a l’occhio de l’ uliva ;
e guardati di non ferire a scoglio,
colla tua nave in salvo porto arriva.


LXV.

De gli occhi de la mia donna si move
un lume sì gentil, che dove appare
si veggion cose ch’ uom non pò ritrare
per loro altezza e per lor esser nove :
e de’ suoi razzi sovra ‘1 meo cor piove
tanta paura, che mi fa tremare,
e dicer « Qui non voglio mai tornare »;
ma poscia perdo tutte le mie prove,

e tornomi colà, dov’ io son vinto,
riconfortanclo gli occhi paurusi,
che sentier prima questo gran valore.
Quando son giunto, lasso!, ed e ‘ son chiusi;
lo disio che li mena quivi e stinto :
però proveggia a lo mio stato Amore.


LXVI.

Ne le man vostre, gentil donna mia,
raccomando lo spirito che more :
e’ se ne va sì dolente, ch’Amore
lo mira con pietà, che ‘l manda via.
Voi lo legaste a la sua signoria,
sì che non ebbe poi alcun valore
di poter lui cliiamar se non : « Signore,
qualunque vuoi di me, quel vo’ che sia ».

Io so che a voi ogni torto dispiace ;
però la morte, che non ho servita,
molto più m’ entra ne lo core amara.
Gentil mia donna, mentre ho de la vita,
per tal ch’ io mora consolato in pace,
vi piaccia agli occhi mei non esser cara.


LXVII.

E ‘ m ‘ incresce di me sì duramente,
c’ altrettanto di doglia
mi reca la pietà quanto ‘1 martiro,
lasso !, però che dolorosamente
sento contro mia voglia
raccogner 1′ aire del sezza’ sospiro
entro ‘n quel cor che i belli occhi feriro
quando li aperse Amor con le sue mani
per conducermi al tempo che mi sface.
Oïme, quanto piani,
soavi e dolci ver me si levaro,
quand’ elli incominciaro
la morte mia, che tanto mi dispiace,
dicendo « Nostro lume porta pace »

« Noi darem pace al core, a voi diletto »
diceano a li occhi miei
quei de la bella donna alcuna volta ;
ma poi che sepper di loro intelletto
che per forza di lei
m’ era la mente già ben tutta tolta,
con le insegne d’Amor dieder la volta ;
sì che la lor vittoriosa vista
poi non si vide pur una fiata :
ond’ è rimasa trista
l’ anima mia che n’ attendea conforto,
e ora quasi morto
vede lo core a cui era sposata,
e partir la convene innamorata.

Innamorata se ne va piangendo
fora di questa vita
la sconsolata, che la caccia Amore.
Ella si move quinci sì dolendo,
ch’ anzi la sua partita
l’ ascolta con pietate il suo fattore.
Ristretta s’ è entro il mezzo del core
con quella vita che rimane spenta
solo in quel punto ch’ ella si va via ;
e ivi si lamenta
d’Amor, che fuor d’ esto mondo la caccia
e spessamente abbraccia
li spiriti che piangon tuttavia,
però che perdon la lor compagnia.

L’ imagine di questa donna siede
su ne la mente ancora,
là ‘ve la pose quei che fu sua guida ;
e non le pesa del mal ch’ ella vede,
anzi vie più bella ora
che mai e vie più lieta par che rida
e alza li occhi micidiali, e grida
sopra colei che piange il suo partire :
« Vanne, misera, fuor, vattene omai ! »
Questo grida il desire
che mi combatte così come sole,
avvegna che men dole,
però che ‘1 mio sentire e meno assai
ed e più presso al terminal’ de’ guai.

Lo giorno che costei nel mondo venne,
secondo che si trova
nel libro de la mente che vien meno,
la mia persona pargola sostenne
una passion nova,
tal ch’ io rimasi di paura pieno ;
ch’ a tutte mie virtù fu posto un freno
subitamente, sì ch’ io caddi in terra,
per una luce che nel cuor percosse :
e se ‘1 libro non erra,
lo spirito maggior tremò sì forte,
che parve ben che morte
per lui in questo mondo giunta fosse :
ma or ne incresce a quei che questo mosse.

Quando m’ apparve poi la gran biltate
che sì mi fa dolere,
donne gentili a cu’ i’ ho parlato,
quella virtù che ha più nobilitate,
mirando nel piacere,
s’ accorse ben che ‘1 suo male era nato ;
e conobbe ‘l disio ch’era creato
per lo mirare intento ch’ ella fece;
sì che piangendo disse a 1′ altre poi :
« Qui giugnerà, in vece
d’ una ch’ io vidi, la bella figura,
che già mi fa paura ;
che sarà donna sopra tutte noi,
tosto che fia piacer de li occhi suoi ».

Io ho parlato a voi, giovani donne,
che avete li occhi di bellezze ornati
e la mente d’ amor vinta e pensosa,
perchè raccomandati
vi sian li detti miei ovunque sono;
e ‘nnanzi a voi perdono
la morte mia a quella bella cosa
che me n’ ha colpa e mai non fu pietosa.


LXVIII.

Lo doloroso amor che mi conduce
a fin di morte per piacer di quella
che lo mio cor solea tener gioioso,
m’ ha tolto e toglie ciascun di la luce
che avean li occhi miei di tale stella,
che non credea di lei mai star doglioso :
e ‘l colpo suo c’ ho portato nascoso,
omai si scopre per soverchia pena,
la qual nasce del foco
che m’ ha tratto di gioco,
sì ch’ altro mai che male io non aspetto ;
e ‘l viver mio (omai esser de’ poco)
fin a la morte mia sospira e dice :
« Per quella moro c’ ha nome Beatrice ».

Quel dolce nome, che mi fa il cor agro,
tutte fiate ch’ i’ lo vedrò scritto
mi farà nuovo ogni dolor ch’ io sento ;
e de la doglia diverrò sì magro
de la persona, e ‘l viso tanto affiitto,
che qual mi vederà n’ avrà pavento.
E allor non trarrà sì poco vento
che non mi meni, si ch’ io cadrò freddo ;
e per tal verrò morto,
e ‘l dolor sarà scorto
con l’ anima che sen girà sì trista;
e sempre mai con lei starà ricolto,
ricordando la gio’ del dolce viso,
a che niente par lo paradiso.

Pensando a quel che d’Amore ho provato,
1′ anima mia non chiede altro diletto,
ne il penar non cura il quale attende ;
che, poi che ‘1 corpo sarà consumato,
se n’ anderà 1′ amor che m’ ha sì stretto
con lei a quel ch’ ogni ragione intende;
e se del suo peccar pace no i rende,
partirassi col tormentar ch’ è degna,
sì che non ne paventa;
e starà tanto atterita
d’ imaginar colei per cui s’ e mossa,
che nulla pena avrà ched ella senta ;
sì che se ‘n questo mondo io 1′ ho perduto
Amor ne l’ altro men darà trebuto.

Morte, che fai piacere a questa donna,
per pietà innanzi che tu mi dis[c]igli,
va da lei, fatti dire
perchè m’ avvien che la luce di quigli
che mi fan tristo, mi sia così tolta :
se per altrui ella fosse ricolta,
falmi sentire, e trarra’ mi d’errore,
e assai finirò con men dolore.


LXIX.

Di donne io vidi una gentile schiera
questo Ognissanti prossimo passato,
e una ne venia quasi imprimiera,
veggendosi l’Amor dal destro lato.
De gli occhi suoi gittava una lumera,
la qual parea un spirito infiammato ;
e i’ ebbi tanto ardir, ch’ in la sua cera
guarda’, [e vidi] un angiol figurato.

A chi era degno donava salute
co gli atti suoi quella benigna e piana,
e ‘mpiva ‘l core a ciascun di vertute.
Credo che de lo ciel fosse soprana,
e venne in terra per nostra salute :
là ‘nd’ è beata chi l’ è prossimana.


LXX.

Onde venite voi così pensose?
Ditemel, s’ a voi piace, in cortesia,
ch’ i’ ho dottanza che la donna mia
non vi faccia tornar così dogliose.
Deh, gentil donne, non siate sdegnose,
ne di ristare alquanto in questa via
e dire al doloroso che disia
udir de la sua donna alquante cose;

avvegna che gravoso m’ è l’ udire:
sì m’ ha in tutto Amor da se scacciato,
ch’ ogni suo atto mi trae a ferire.
Guardate bene s’ i’ son consumato,
ch’ ogni mio spirto comincia a fuggire,
se da voi, donne, non son confortato.


LXXI.

– Voi, donne, che pietoso atto mostrate,
chi è esta donna che giace sì venta ?
sarebbe quella ch’ è nel mio cor penta ?
Deh, s’ ella è dessa, più non mel celate.
Ben ha le sue sembianze sì cambiate,
e la figura sua mi par sì spenta,
ch’ al mio parere ella non rappresenta
quella che fa parer 1′ altre beate. –

– Se nostra donna conoscer non poi,
ch’ è sì conquisa, non mi par gran fatto,
però che quel medesmo avvenne a noi.
Ma se tu mirerai il gentil atto
de li occhi suoi, conosceraila poi:
non pianger più, tu se’ già tutto sfatto. –


LXXII.

Un dì si venne a me Malinconia
e disse: «Io voglio un poco stare teco »
e parve a me ch’ ella menasse seco
Dolore e Ira per sua compagnia.
E io le dissi: «Partiti, va via»;
ed ella mi rispose come un grec :
e ragionando a grande agio meco,
guardai e vidi Amore, che venia

vestito di novo d’ un drappo nero,
e nel suo capo portava un cappello;
e certo lacrimava pur di vero.
Ed eo li dissi : «Che hai, cattivello?»
Ed el rispose : «Eo bo guai e pensero,
chè nostra donna mor, dolce fratello».


LIBRO TERZO.
TENZONE CON FORESE DONATI

LXXIII.
DANTE A FORESE

Chi udisse tossir la mal fatata
moglie di Bicci vocato Forese,
potrebbe dir ch’ ell’ ha forse vernata
ove si fa ‘l cristallo in quel paese.
Di mezzo agosto la truovi infreddata;
or sappi che de’ far d’ ogni altro mese!
E non le val perche dorma calzata,
merzè del copertoio c’ ha cortonese.

La tosse, ‘l freddo e l’ altra mala voglia
no l’ addovien per omor ch’ abbia vecchi,
ma per difetto ch’ ella sente al nido.
Piange la madre, c’ ha piü d’ una doglia,
dicendo: «Lassa, che per fichi secchi
messa l’ avre’ ‘n casa del conte Guido!»


LXXIV.
FORESE A DANTE

L’ altra notte mi venne una gran tosse,
    perch’ i’ non avea che tener a dosso ;
    ma incontanente che fu dì, fui mosso
    per gir a guadagnar ove che fosse.
    Udite la fortuna ove m’ addosse :
    ch’ i’ credetti trovar perle in un bosso
    e be’ florin coniati d’ oro rosso ;
    ed i’ trovai Alaghier tra le fosse,
legato a nodo ch’ i’ non saccio ‘l nome,
    se fu di Salamone o d’ altro saggio.
    Allora mi segna’ verso ‘l levante :
    e que’ mi disse : « Per amor di Dante,
    scio’mi ». Ed i’ non potti veder come :
    tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio.


LXXV.
DANTE A FORESE

Ben ti faranno il nodo Salamone,
Bicci novello, e petti de le starne,
ma peggio fia la lonza del eastrone,
che ‘1 cuoio farà vendetta de la carne;
tal che starai piil presso a San Simone,
se tu non ti procacci de 1’ andarne:
e ‘ntendi che ‘1 fuggire el mal boccone
sarebbe oramai tardi a ricomprarne.

Ma ben m’ e detto che tu sai un’ arte,
che, s’ egli è vero, tu ti puoi rifare,
però c h ‘ ell’ è di molto gran guadagno;
e fa sì a tempo, che tema di carte
non hai, che ti bisogni scioperare;
ma ben ne colse male a’ fi’ di Stagno.


LXXVI.
FORESE A DANTE

Va, rivesti San Gal prima che dichi
parole o motti d’ altrui povertate,
che troppo n’ è venuta gran pietate
in questo verno a tutti suoi amichi.
E anco, se tu n’ hai per sì mendichi,
perchè pur maridi a noi per caritate ?
Dal castello Altrafonte ha’ ta’ grembiate,
ch’ io saccio ben che tu te ne nutrichi.

Ma ben t’ alenerà il lavorare,
se Dio ti salvi la Tana e ‘l Francesco,
che col Belluzzo tu non stia in brigata.
A lo spedale a Pinti ha’ riparare ;
e già mi par vedere stare a desco,
ed in terzo, Alighier co la farsata.


LXXVII.
DANTE A FORESE.

Bicci novel, figliuol di non so cui,
s’ i’ non ne domandasse monna Tessa,
giù per la gola, tanta roba hai messa,
ch’ a forza ti convien torre 1′ altrui.
E già la gente si guarda da lui,
chi ha borsa a lato, là dov’ e ‘ s ‘ appressa,
dicendo . « Questi c’ ha la faccia fessa
è piuvico ladron negli atti sui ».

E tal giace per lui nel letto tristo,
per tema non sia preso a lo ‘mbolare,
che gli appartien quanto Giosepp’ a Cristo.
Di Bicci e de’ fratei posso contare
che, per lo sangue lor, del male acquisto
sanno a lor donne buon cognati stare.


LXXVIII.
FORESE A DANTE

Ben so che fosti figliuol d’Alaghieri,
e accorgomene pur a la vendetta
che facesti di lui sì bella e netta
de l’ aguglin ched e’ cambio l’ altr’ ieri.
Se tagliato n’ avessi uno a quartieri,
di pace non dovevi aver tal fretta ;
ma tu ha’ poi piena la bonetta,
che non la porterebber duo somieri.

Buon uso ci ha’ recato, ben til dico,
che qual ti carica ben di bastone,
colui ha’ per fratello e per amico.
Il nome ti direi de le persone
che v’ hanno posto su; ma del panico
mi reca, ch’ i’ vo’ metter la ragione


LIBRO QUARTO
RIME ALLEGORICHE E DOTTRINALI

 LXXIX.

Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete

[In principio del II trattato del Convivio]


LXXX.

Voi che savete ragionar d’Amore,
udite la ballata mia pietosa,
che parla d’ una donna disdegnosa,
la qual m’ ha tolto il cor per suo valore

Tanto disdegna qualunque la mira,
che fa chinare gli occhi di paura,
però che intorno a’ suoi sempre si gira
d’ ogni crudelitate una pintura ;
ma dentro portan la dolze figura
ch’ a 1′ anima gentil fa dir: «Merzede!»,
sì vertuosa, che quando si vede,
trae li sospiri altrui fora del core.

Par ch’ ella dica: «Io non sarò umile
verso d’ alcun che ne li occhi mi guardi,
ch’ io ci porto entro quel segnor gentile
che m’ ha fatto sentir de li suoi dardi».
E certo i’ credo che così li guardi
per vederli per se quando le piace,
a quella guisa retta donna face
quando si mira per volere onore.

Io non ispero che mai per pietate
degnasse di guardare un poco altrui,
così e fera donna in sua bieltate
questa che sente Amor negli occhi sui.
Ma quanto vuol nasconda e guardi lui,
ch’ io non veggia talor tanta salute;
però che i miei disiri avran vertute
contra ‘l disdegno che mi dà tremore.


LXXXI.

Amor, che ne la mente mi ragiona

[In principio del III trattato del Convivio].


LXXXII.

Le dolci rime d’amor ch’ io solia

[In principio del IV trattato del Convivio].


LXXXIII.

Poscia ch’Amor del tutto m’ ha lasciato,
non per mio grato,
chè stato non avea tanto gioioso,
ma però che pietoso
fu tanto del meo core,
che non sofferse d’ ascoltar suo pianto ;
i’ canterò così disamorato
contra ‘1 peccato,
ch’ è nato in noi, di chiamare a ritroso
tal ch’ è vile e noioso
con nome di valore,
cioè di leggiadria, ch’ è bella tanto
che fa degno di manto
imperial colui dov’ ella regna :
ell’ è verace insegna
la qual dimostra u’ la vertù dimora;
per ch’ io son certo, se ben la difendo
nel dir com’ io ia ‘ntendo,
ch’Amor di se mi farà grazia ancora

Sono che per gittar via loro avere
credon potere
capere là dove li boni stanno
che dopo morte fanno
riparo ne la mente
a quei cotanti c’ hanno canoscenza
Ma lor messione a’ bon non pò piacere,
perchè tenere
savere fora, e fuggiriano il danno,
che si aggiugne a lo ‘nganno
di loro e de la gente
c’ hanno falso iudicio in lor sentenza.
Qual non dirä fallenza
divorar cibo ed a lussuria intendere ?
ornarsi, come vendere
si dovesse al mercato di non saggi ?
che ‘1 saggio non pregia om per vestimenta,
ch’ altrui sono ornamenta,
ma pregia il senno e li genti coraggi.

E altri son che, per esser ridenti,
d’ intendimenti
correnti voglion esser iudicati
da quei che so’ ingannati
veggendo rider eosa
che lo ‘ntelletto cieco non la vede.
E’ parlan con vocaboli eccellenti ;
vanno spiacenti,
content! che da lunga sian mirati ;
non sono irinamorati
mai di donna amorosa ;
ne’ parlamenti lor tengono scede ;
non moveriano il piede
per donneare a guisa di leggiadro,
ma come al fnrto il ladro,
così vanno a pigliar villan diletto ;
e non però che ‘n donne è sì dispento
leggiadro portamento,
che paiono animai sanza intelletto.

Ancor che ciel con cielo in punto sia,
che leggiadria
disvia cotanto, e piü che quant’ io conto,
io, che le sono conto
merzè d’una gentile
che la mostrava in tutti gli atti sui,
non tacerò di lei, che villania
far mi parria
sì ria, ch’ a’ suoi nemici sarei giunto :
per che da questo punto
con rima più sottile
tratterò il ver di lei, ma non so cui.
Eo giuro per colui
ch’Amor si chiama ed è pien di salute,
che sanza ovrar vertute
nessun pote acquistar verace loda :
dunque se questa mia matera è bona,
come ciascun ragiona,
sarà vertù o con vertù s’ annoda.

Non è pura vertù la disviata,
poi ch’ è blasmata,
negata là ‘v’ è più vertù richesta,
cioè in gente onesta
di vita spiritale
o in abito che di scienza tiene.
Dunque, s’ ell’ è in cavalier lodata,
sarà mischiata,
causata di più cose; perchè questa,
conven che di sè vesta
l’ un bene e l’ altro male,
ma vertù pura in ciascuno sta bene
Sollazzo è che convene
con esso Amore e l’ opera perfetta :
da questo terzo retta
è vera leggiadria e in esser dura,
sì come il sole al cui esser s’ adduce
lo calore e la luce
con la perfetta sua bella figura.

Al gran pianeto e tutta simigliante
che, dal levante
avante infino a tanto che s’ asconde,
co li bei raggi infonde
vita e vertù qua giuso
ne la matera sì com’ è disposta :
e questa, disdegnosa di cotante
persone, quante
sembiante portan d’ omo, e non responde
lor frutto a le fronde
per lo mal c’ hanno in uso,
simili beni al cor gentile accosta;
chè ‘n donar vita e tosta
co’ bei sembianti e co’ begli atti novi
ch’ ognora par che trovi,
e vertù per essemplo a chi lei piglia.
Oh falsi cavalier, malvagi e rei,
nemici di costei,
ch’ al prenze de le stelle s’ assimiglia !

Dona e riceve 1′ om cui questa vole,
mai non sen dole ;
nè ‘l sole per donar luce a le stelle,
nè per prender da elle
nel suo effetto aiuto ;
ma l’ uno e 1′ altro in ciò diletto tragge.
Già non s’ induce a ira per parole,
ma quelle sole
ricole che son bone, e sue novelle
sono leggiadre e belle;
per sè caro è tenuto
e disiato da persone sagge,
chè de l’ altre selvagge
cotanto laude quanto biasmo prezza ;
per nessuna grandezza
monta in orgoglio, ma quando gl’ incontra
che sua franchezza li conven mostrare,
quivi si fa laudare.
Color che vivon fanno tutti contra.


LXXXIV.

Parole mie che per lo mondo siete,
voi che nasceste poi ch’ io cominciai
a dir per quella donna in cui errai
«Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete»,
andatevene a lei, che la sapete,
chiamando sì ch’ ell’ oda i vostri guai;
ditele : «Noi siam vostre, ed unquemai
più che noi siamo non ci vederete».
Con lei non state, che non v’ è Amore;

ma gite a torno in abito dolente
a guisa de le vostre antiche sore.
Quando trovate donna di valore,
gittatelevi a’ piedi umilemente,
dicendo: «A voi dovem noi fare onore».


LXXXV.

CONTRO IL PRECEDENTE SONETTO.

O dolci rime che parlando andate
de la donna gentil che l’ altre onora,
a voi verrà, se non e giunto ancora,
un che direte : « Questi è nostro frate ».
Io vi scongiuro che non l’ ascoltiate
per quel signor che le donne innamora,
chè ne la sua sentenzia non dimora
cosa che arnica sia di veritate.

E se voi foste per le sue parole
mosse a venire inver la donna vostra,
non v’ arrestate, ma venite a lei.
Dite: «Madonna, la venuta nostra
e per raccomandarvi un che si dole,
dicendo «ov’ è ‘l disio de Ii occhi miei?»


LIBRO QUINTO.
ALTRE RIME D’AMORE E DI CORRISPONDENZA

LXXXVI.

Due donne in cima de la mente mia
venute sono a ragionar d’ amore :
l’ una ha in sè cortesia e valore,
prudenza e onestà in eompagnia ;
l’ altra ha bellezza e vaga leggiadria,
adorna gentilezza le fa onore :
e io, merzè del dolce mio signore,
mi sto a piè de la lor signoria.
Parian bellezza e virtù a l’ intelletto,
e fan quistion come un cor puote stare
intra due donne con amor perfetto.
Risponde il fonte del gentil parlare
ch’ amar si può bellezza per diletto,
e puossi amar virtù per operare.


LXXXVII.

– I ‘ mi son pargoletta bella e nova,
che son venuta per mostrare altrui
de le bellezze del loco ond’ io fui.

I ‘ fui del cielo, e tornerovvi ancora
per dar de la mia luce altrui diletto ;
e chi mi vede e non se ne innamora
d’ amor non averà mai intelletto,
che non mi fu in piacer alcun disdetto
quando natura mi chiese a colui
che volle, donne, accompagnarmi a vui.

Ciascuna stella ne li occhi mi piove
del lume suo e de la sua vertute ;
le mie bellezze sono al mondo nove,
però che di là su mi son venute :
le quai non posson esser canosciute
se non da canoscenza d’ omo in cui
Amor si metta per piacer altrui. –

Queste parole si leggon nel viso
d’ un’ angioletta che ci è apparita :
e io che per veder lei mirai fiso,
ne sono a rischio di perder la vita;
però ch’ io ricevetti tal ferita
da un ch’io vidi dentro a li occhi sui,
ch’ i’ vo’ piangendo e non m’ acchetai pui.


LXXXVIII.

Perchè ti vedi giovinetta e bella,
tanto che svegli ne la mente Amore,
pres’ hai orgoglio e durezza nel core.

Orgogliosa se’ fatta e per me dura,
po’ che d’ ancider me, lasso !, ti prove:
credo che ’1 facci per esser sicura
se la vertù d’Amore a morte move.
Ma perchè preso più ch’ altro mi trove,
non hai respetto alcun del mi’ dolore.
Possi tu spermentar lo suo valore!


LXXXIX

Chi guarderà già mai sanza paura
ne li occhi d’ esta bella pargoletta,
che m’ hanno concio sì, che non s’ aspetta
per me se non la morte, che m’ è dura?
Vedete quanto è forte mia ventura,
che fu tra l’altre la mia vita eletta
per dare essemplo altrui, ch’ uom non si metta
in rischio di mirar la sua figura.
Destinata mi fu questa finita
da ch’ un uom convenia esser disfatto,
perch’ altri fosse di pericol tratto;
e però, lasso, fu’ io così ratto
in trarre a me ‘l contrario de la vita,
come vertù di stella margherita.


XC.

Amor, che movi tua vertù dal cielo
come ‘l sol lo splendore,
che là s’ apprende più lo suo valore
dove più nobiltà suo raggio trova ;
e come el fuga oscuritate e gelo,
così, alto segnore,
tu cacci la viltate altrui del core,
nè ira contra te fa lunga prova ;
da te conven che ciascun ben si mova
per lo qual si travaglia il mondo tutto ;
sanza te è distrutto
quanto avemo in potenzia di ben fare,
come pintura in tenebrosa parte,
che non si può mostrare
nè dar diletto di color ne d’ arte.

Feremi ne lo cor sempre tua luce,
come raggio in la stella,
poi che 1′ anima mia fu fatta ancella
de la tua podestà primeramente ;
onde ha vita un disio che mi conduce
con sua dolce favella
in rimirar ciascuna cosa bella
con più diletto quanto e più piacente.
Per questo mio guardar m’ è ne la mente
una giovane entrata, che m’ ha preso,
e hagli un foco acceso,
com’ acqua per chiarezza fiamma accende ;
perchè nel suo venir li raggi tuoi,
con li quai mi risplende,
saliron tutti su ne gli occhi suoi.

Quanto è ne l’ esser suo bella, e gentile
ne gli atti ed amorosa,
tanto lo imaginar, che non si posa,
l’ adorna ne la mente ov’ io la porto ;
non che da se medesmo sia sottile
a così alta cosa,
ma da la tua vertute ha quel ch’ elli osa
oltre al poder che natura ci ha porto.
È sua beltà del tuo valor conforto,
in quanto giudicar si puote effetto
sovra degno suggetto,
in guisa ched è ‘l sol segno di foco ;
lo qual a lui non dà nè to’ virtute,
ma fallo in altro loco
ne l’effetto parer di più salute.

Dunque, segnor di sì gentil natura
che questa nobiltate
che avven qua giuso e tutt’ altra bontate
lieva principio de la tua altezza,
guarda la vita mia quanto ella è dura,
e prendine pietate,
che lo tuo ardor per la costei bieltate
mi fa nel core aver troppa gravezza.
Falle sentire, Amor, per tua dolcezza,
il gran disio ch’ i’ ho di veder lei;
non soffrir che costei
per giovanezza mi conduca a morte ;
chè non s’ accorge ancor com’ ella piace,
nè quant’ io 1′ amo forte,
nè che ne li occhi porta la mia pace.

Onor ti sarà grande se m’ aiuti,
e a me ricco dono,
tan to quanto conosco ben ch’ io sono
là ‘v’ io non posso difender mia vita ;
che gli spiriti miei son combattuti
da tal ch’ io non ragiono,
se per tua volonte non han perdono,
che possan guari star sanza finita.
Ed ancor tua potenzia fia sentita
da questa bella donna, che n’ è degna ;
che par che si convegna
di darle d’ ogni ben gran compagnia,
com’ a colei che fu nel mondo nata
per aver segnoria
sovra la mente d’ ogni uom che la guata.


XCI.

Io sento sì d’Amor la gran possanza,
ch’ io non posso durare
lungamente a soffrire, ond’ io mi doglio ;
però che ‘1 suo valor si pur avanza,
e ‘1 mio sento mancare
sì ch’ io son meno ognora ch’ io non soglio.
Non dico ch’Amor faccia piü ch’ io voglio,
chè, se facesse quanto il voler chiede,
quella vertù che natura mi diede
nol sosterria, però ch’ ella è finita :
ma questo è quello ond’ io prendo cordoglio,
che a la voglia il poder non terrà fede ;
e se di buon voler nasce merzede,
io 1′ addimando per aver più vita
da li occhi che nel lor bello splendore
portan conforto ovunque io sento amore.

Entrano i raggi di questi occhi belli
ne’ miei irmamorati,
e portan dolco ovunque io sento amaro ;
e sanno lo cammin, si come quelli
che già vi son passati,
e sanno il loco dove Amor lasciaro,
quando per li occhi miei dentro il menaro:
per che merzè, volgendosi, a me fanno,
e di colei cui son procaccian danno
celandosi da me, poi tanto l’ amo
che sol per lei servir mi tegno caro.
E’ miei pensier, che pur d’ amor si fanno,
come a lor segno, al suo servigio vanno:
per che l’ adoperar si forte bramo,
che s’ io ‘l credesse far fuggendo lei,
lieve saria; ma so ch’ io ne morrei.

Ben è verace amor quel che m’ ha preso,
e ben mi stringe forte,
quand’ io farei quel ch’ io dico per lui;
chè nullo amore e di cotanto peso,
quanto è quel che la morte
face piacer, per ben servire altrui.
E io ‘n cotal voler fermato fui
sì tosto come il grari disio ch’ io sento
fu nato per vertù del piacimento
che nel bel viso d’ ogni bei s’ accoglie.
Io son servente, e quando penso a cui,
qual ch’ ella sia, di tutto son contento,
che 1′ uom può ben servir contra talento;
e se merzè giovanezza mi toglie,
io spero tempo che più ragion prenda,
pur che la vita tanto si difenda.

Quand’ io penso un gentil disio, ch’ e nato
del gran disio ch’ io porto,
ch’ a ben far tira tutto il mio podere,
parmi esser di merzede oltrapagato;
e anche più ch’ a torto
mi par di servidor nome tenere:
così dinanzi a li occhi del piacere
si fa ‘1 servir merzè d’ altrui bontate.
Ma poi ch’ io mi ristringo a veritate,
convien che tal disio servigio conti;
però che s’ io procaccio di valere,
non penso tanto a mia propfietate
quanto a colei che m’ ha in sua podestate,
chè ‘l fo perche sua eosa in pregio monti;
e io son tutto suo ; così mi tegno,
ch’Amor di tanto onor m’ ha fatto degno.

Altri ch’Amor non mi potea far tale,
ch’ eo fosse degnamente
cosa di quella che non s’ innamora,
ma stassi come donna a cui non cale
de l’ amorosa mente
che sanza lei non può passare un’ ora.
Io non la vidi tante volte ancora
ch’ io non trovasse in lei nova bellezza ;
onde Amor cresce in me la sua grandezza
tanto quanto il piacer novo s’ aggiugne.
Ond’ elli »wen che tanto fo dimora
in uno stato e tanto Amor m’ avvezza
con un martiro e con una dolcezza,
quanto è quel tempo che spesso mi pugne,
che dura da ch’ io perdo la sua vista
in fino al tempo ch’ ella si racquista.

Canzon mia bella, se tu mi somigli,
tu non sarai sdegnosa
tanto quanto a la tua bontà s’ avvene ;
però ti prego che tu t’ assottigli,
dolce mia amorosa,
in prender modo e via che ti stea bene.
Se cavalier t’ invita o ti ritene,
imprima che nel suo piacer ti metta,
espia, se far lo puoi, de la sua setta,
se vuoi saver qual e la sua persona;
che ‘1 buon col buon sempre camera tene.
Ma elli avven che spesso altri si getta
in compagnia che non è che disdetta
di mala fama ch’ altri di lui suona :
con rei non star ne a cerchio nè ad arte,
chè non fu mai saver tener lor parte.

Canzone, a’ tre men rei di nostra terra
te n’ anderai prima che vadi altrove :
li due saluta, e ‘1 terzo vo’ che prove
di trarlo fuor di mala setta in pria.
Digli che ‘1 buon col buon non prende guerra,
prima che co’ malvagi vincer prove ;
digli ch’ è folle chi non si rimove
per tema di vergogna da follia ;
che que’ la teme c’ ha del mal paura,
perchè, fuggendo 1′ un, 1′ altro assicura.


XCII .

UN AMICO A DANTE

Dante Alleghier, d’ ogni senno pregiato
che ‘n corpo d’ om si potesse trovare,
un tuo amico di debile affare
da la tua parte s’ era richiamato
a una donna che l’ ha sì incolpato
con fini spade di sottil tagliare,
che in nulla guisa ne pensa scampare,
però che ‘ colpi han gid il cor toccato.

Onde a te cade fame alta vendetta
di quella che l’ ha si forte conquiso,
che null’altra mai non se ne inframetta
Delle sue condizioni io vi diviso,
ch’ ell’ è una leggiadra giovinetta
che porta propiamente Amor nel viso.


XCIII.

RISPOSTA DI DANTE

Io Dante a te che m’ hai così chiamato
rispondo brieve con poco pensare,
però che più non posso soprastare,
tanto m’ ha ‘1 tuo pensier forte affannato.
Ma ben vorrei saper dove e in qual lato
ti richiamasti, per me ricordare :
forse che per mia lettera mandare
saresti d’ ogni colpo risanato.

Ma s’ ella è donna che porti anco vetta,
sì ‘n ogni parte mi pare esser fiso
ch’ ella verrà a farti gran disdetta.
Secondo detto m’ hai ora, m’ avviso
che ella è sì d’ ogni peccato netta
come angelo che stia in paradiso.


XCIV.

MESSER CINO DA PISTOIA A DANTE

Novellamente Amor mi giura e dice
d’ una donna. gentil, s’ i’ la riguardo,
che per vertù de lo su’ novo sguardo
ella sarà del meo cor beatrice.
Io c’ ho provato po’ come disdice,
quando vede imbastito lo suo dardo,
ciò che promette, a morte mi do tardo,
ch’ i’ non potrò contraffar la fenice.

S’io levo gli occhi, e del suo colpo perde
lo core mio quel poco che di vita
gli rimase d’ un’ altra sua ferita.
Che farò, Dante ? ch’Amor pur m’ invita,
e d’ altra parte il tremor mi disperde
che peggio che lo scur non mi sia ‘l verde.


XCV.

DANTE A MESSER CINO PER RISPOSTA

I’ ho veduto già senza radice
legno ch’ è per omor tanto gagliardo,
che que’ che vide nel fiume lombardo
cader suo figlio, fronde fuor n’ elice ;
ma frutto no, però che ‘1 contradice
natura, ch’ al difetto fa riguardo,
perchè conosce che saria bugiardo
sapor non fatto da vera notrice.

Giovane donna a cotal guisa verde
talor per gli occhi sì a dentro è gita,
che tardi poi e stata la partita.
Periglio e grande in donna sì vestita :
però [l’ affronto] de la gente verde
parmi che la tua caccia [non] seguer de’.


XCVI.

DANTE A MESSER CINO DA PISTOIA

Perch’ io non trovo chi meco ragioni
del signor a cui siete voi ed io,
conviemmi sodisfare al gran disio
ch’ i’ ho di dire i pensamenti boni.
Null’ altra cosa appo voi m’accagioni
del lungo e del noioso tacer mio
se non il loco ov’ i’ son, ch’ è sì rio,
che ‘l ben non trova chi albergo li doni.

Donna non ci ha ch’Amor le venga al volto,
nè omo ancora che per lui sospiri;
e chi ‘l facesse qua sarebbe stolto.
Oh, messer Cin, come ‘l tempo è rivolto
a danno nostro e de li nostri diri,
da po’ che ‘1 ben è sì poco ricolto!


XCVII.

MESSER CINO A DANTE IN RISPOSTA

 Dante, i’ non so in qual albergo soni
lo ben, ch’ è da ciascun messo in oblio;
è sì gran tempo che di qua fuggio,
che del contraro son nati li troni ;
e per le variate condizioni
chi ‘l ben tacesse non risponde al fio :
lo ben sa’ tu che predicava Iddio,
e nol tacea nel regno de’ dimoni.

Dunque s’ al ben ciascun ostello è tolto
nel mondo, in ogni parte ove ti giri,
vuoli tu anco far dispiacer molto ?
Diletto frate mio, di pene involto,
merzè per quella donna che tu miri,
d’opra non star, se di fè non se’ sciolto.


XCVIII.

MESSER CINO DA PISTOIA A DANTE

 Dante, i’ ho preso l’ abito di doglia
e innanzi altrui di lagrimar non curo,
che ‘l vel tinto ch’ i’ vidi e ‘l drappo scuro
d’ ogni allegrezza e d’ogni ben mi spoglia;
e lo cor m’ arde in disiosa voglia
di pur doler mentre che ‘n vita duro,
fatto di quel che dotta ogn’ vom sicuro,
sol che ciascun dolore in me s’ accoglia

Dolente vo, pascendomi sospiri,
quanto posso inforzando ‘l mio lamento
per quella che si duol ne’ miei desiri.
E però, se tu sai novo torrnenlo,
mandalo al disioso dei martiri,
che fie albergato di coral talento.


XCIX.

DANTE A MESSER BETTO BRUNELLESCHI

Messer Brunetto, questa pulzelletta
con esso voi si ven la pasqua a fare:
non intendete pasqua di mangiare,
ch’ ella non mangia, anzi vuol esser letta.
La sua sentenzia non richiede fretta,
ne luogo di romor ne da giullare;
anzi si vuol più volte lusingare
prima che ‘n intelletto altrui si metta.

Se voi non la intendete in questa guisa,
in vostra gente ha molti frati Alberti
da intender ciò ch’ è posto loro in mano.
Con lor vi restringete sanza risa;
e se li altri de’ dubbi non son certi,
ricorrete a la fine a messer Giano.


LIBRO SESTO.
RIME PER LA DONNA PIETRA

C.

Io son venuto al punto de la rota
che l’ orizzonte, quando il sol si corca,
ci partorisce il geminato cielo,
e la stella d’ amor ci sta remota
per lo raggio lucente che la ‘nforca
sì di traverso, che le si fa velo;
e quel pianeta che conforta il gelo
si mostra tutto a noi per lo grand’ arco
nel qual ciascun di sette fa poca ombra :
e però non disgombra
un sol penser d’amore, ond’io son carco,
la mente mia, ch’è più dura che petra
in tener forte imagine di petra.

Levasi de la rena d’Etiopia
lo vento peregrin che l’aere turba,
per la spera del sol ch’ ora la scalda ;
e passa il mare, onde conduce copia
di nebbia tal, che, s’ altro non la sturba,
questo emisperio chiude tutto e salda ;
e poi si solve, e cade in bianca falda
di fredda neve ed in noiosa pioggia,
onde l’aere s’attrista tutto e piagne :
e Amor, che sue ragne
ritira in alto pel vento che poggia,
non m’abbandona ; sì è bella donna
questa crudel che m’ è data per donna.

Fuggito è ogne augel che ‘l caldo segue
del paese d’ Europa, che non perde
le sette stelle gelide unquemai;
e li altri han posto a le lor voci triegue
per non sonarle infino al tempo verde,
se ciò non fosse per cagion di guai;
e tutti li animali che son gai
di lor natura, son d’ amor disciolti,
però che ‘l freddo lor spirito ammorta:
e ‘l mio più d’ amor porta;
che li dolzi pensier non mi son tolti
nè mi son dati per volta di tempo,
ma donna li mi dà c’ha picciol tempo.

Passato hanno lor termine le fronde
che trasse fuor la vertu d’Ariete
per adornare il mondo, e morta è l’erba
ramo di foglia verde a noi s’ asconde
se non se in lauro, in pino o in abete
o in alcun che sua verdura serba;
e tanto e la stagion forte ed acerba,
c’ha morti li fioretti per le piagge,
li quai non poten tollerar la brina:
e la crudele spina
però Amor di cor non la mi tragge;
per ch’ io son fermo di portarla sempre
ch’ io sarò in vita, s’ io vivesse sempre.

Versan le vene le fummifere acque
per li vapor che la terra ha nel ventre,
che d’ abisso li tira suso in alto;
onde cammino al bei giorno mi piacque
che ora è fatto rivo, e sarà mentre
che durerà del verno il grande assalto ;
la terra fa un suol che par di smalto,
e l’ acqua morta si converte in vetro
per la freddura che di fuor la serra:
e io de la mia guerra
non son però tornato un passo a retro,
ne vo’ tornar ; che se ‘l martiro e dolce,
la morte de’ passare ogni altro dolce.

Canzone, or che sarà di me ne l’altro
dolce tempo novello, quando piove
amore in terra da tutti li cieli,
quando per questi geli
amore è solo in me, e non altrove?
Saranne quello ch’ è d’ un uom di marmo,
se in pargoletta fia per core un marmo.


CI.

Al poco giorno e al gran cerchio d’ ombra
son giunto, lasso!, ed al bianchir de’ colli,
quando si perde lo color ne l’erba;
e ‘l mio disio però non cangia il verde,
sì è barbato ne la dura petra
che parla e sente come fosse donna.

Similemente questa nova donna
si sta gelata come neve a l’ombra;
che non la move, se non come petra,
il dolce tempo che riscalda i colli
e che li fa tornar di bianco in verde
perchè li copre di fioretti e d’ erba.

Quand’ ella ha in testa una ghirlanda d’ erba,
trae de la mente nostra ogn’ altra donna;
perchè si mischia il crespo giallo e ‘l verde
sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,
che m’ha serrato intra piccioli colli
più forte assai che la calcina petra.

La sua bellezza ha più vertù che petra,
e ‘l colpo suo non può sanar per erba ;
ch’io son fuggito per piani e per colli,
per potere scampar da cotal donna ;
e dal suo lume non mi può far ombra
poggio nè muro mai nè fronda verde.

Io l’ho veduta già, vestita a verde
sì fatta, ch’ ella avrebbe messo in petra
1′ amor ch’ io porto pur a la sua ombra;
ond’ io l’ho chesta in un bei prato d’erba
innamorata, com’ anco fu donna,
e chiuso intorno d’ altissimi colli.

Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli
prima che questo legno molle e verde
s’infiammi, come suol far bella donna,
di me ; che mi torrei dormire in petra
tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,
sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.
Quandunque i colli fanno più nera ombra,
sotto un bel verde la giovane donna
la fa sparer, com’uom petra sott’erba.


CII.

Amor, tu vedi ben che questa donna
la tua vertù non cura in alcun tempo
che suol de l’altre belle farsi donna;
e poi s’accorse ch’ell’era mia donna
per lo tuo raggio ch’al volto mi luce,
d’ ogne crudelità si fece donna;
si che non par ch’ eil’ abbia cor di donna
ma di qual fiera l’ha d’amor più freddo;
chè per lo tempo caldo e per lo freddo
mi fa sembiante pur come una donna
che fosse fatta d’una bella petra
per man di quei che me’ intagliasse in petra.

 E io, che son costante piü che petra
in ubidirti per bieltà di donna,
porto nascoso il colpo de la petra,
con la qual tu mi desti come a petra
che t’avesse innoiato lungo tempo,
tal che m’andò al core ov’io son petra.
E mai non si scoperse alcuna petra
o da splendor di sole o da sua luce,
che tanta avesse nè vertù nè luce
che mi potesse atar da questa petra,
sì ch’ella non mi meni col suo freddo
colà dov’io sarò di morte freddo.

Segnor, tu sai che per algente freddo
l’acqua diventa cristallina petra
là sotto tramontana ov’è il gran freddo,
e l’aere sempre in elemento freddo
vi si converte, sì che l’acqua è donna
in quella parte per cagion del freddo:
così dinanzi dal sembiante freddo
mi ghiaccia sopra il sangue d’ogne tempo,
e quel pensiero che m’ accorcia il tempo
mi si converte tutto in corpo freddo,
che m’esce poi per mezzo de la luce
là ond’entrò la dispietata luce

In lei s’accoglie d’ogni bieltä luce:
così di tutta crudeltate il freddo
le corre al core, ove non va tua luce:
per che ne li occhi si bella mi luce
quando la miro, ch’ io la veggio in petra,
e po’ in ogni altro ov’ io volga mia luce.
Da li occhi suoi mi ven la dolce luce
che mi fa non caler d’ogn’altra donna:
così foss’ ella più pietosa donna
ver me, che chiamo di notte e di luce,
solo per lei servire, e luogo e tempo!
Nè per altro disio viver gran tempo.

Però, Vertù che se’ prima che tempo,
prima che moto o che sensibil luce,
increscati di me, c’ ho sì mal tempo:
entrale in core omai, che ben n’è tempo,
sì che per te se n’esca fuor lo freddo
che non mi lascia aver, com’altri, tempo;
chè se mi giunge lo tuo forte tempo
in tale stato, questa gentil petra
mi vedrà coricare in poca petra
per non levarmi se non dopo il tempo,
quando vedrò se mai fu bella donna
nel mondo come questa acerba donna.

Canzone, io porto ne la mente donna
tal, che con tutto ch’ella mi sia petra,
mi dà baldanza, ond’ogni uom mi par freddo;
sì ch’io ardisco a far per questo freddo
la novità che per tua forma luce,
che non fu mai pensata in alcun tempo


CIII.

Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
e veste sua persona d’un diaspro
tal, che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda:
ed ella ancide, e non val ch’ om si chiuda
nè si dilunghi da’ colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giungono altrui e spezzan ciascun’ arme;
sì ch’ io non so da lei nè posso atarme.

Non trovo scudo ch’ ella non mi spezzi
nè loco che dal suo viso m’asconda :
che, come fior di fronda,
così de la mia mente tien la cima :
cotanto del mio mal par che si prezzi,
quanto legno di mar che non lieva onda ;
e ‘l peso che m’ affonda
è tal che non potrebbe adequar rima.
Ahi angosciosa e dispietata lima
che sordamente la mia vita scemi,
perchè non ti ritemi
sì di rodermi il core a scorza a scorza,
com’ io di dire altrui chi ti dà forza?

Chè più mi triema il cor qualora io penso
di lei in parte ov’ altri li occhi induca,
per tema non traluca
lo mio penser di fuor sì che si scopra,
ch’ io non fo de la morte, che ogni senso
co li denti d’Amor giä mi manduca;
ciò è che ‘l pensier bruca
la lor vertù sì che n’ allenta 1′ opra.
E’ m’ ha percosso in terra, e stammi sopra
con quella spada ond’ elli ancise Dido,
Amore, a cui io grido
merzè chiamando, e umilmente il priego;
ed el d’ ogni merzè par messo al niego.

Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d’ ogni guizzo stanco :
allor mi surgon ne la mente strida ;
e ‘l sangue, ch’ è per le vene disperso,
fuggendo corre verso
lo cor, che ‘l chiama; ond’io rimango bianco.
Elli mi fiede sotto il braccio manco
sì forte, che ‘l dolor nel cor rimbalza :
allor dico: «S’elli alza
un’ altra volta, Morte m’avrà chiuso
prima che ‘l colpo sia disceso giuso ».

Così vedess’ io lui fender per mezzo
lo core a la crudele che ‘l mio squatra!
poi non mi sarebb’atra
la morte, ov’io per sua bellezza corro :
chè tanto dà nel sol quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra.
Ohmè, perchè non latra
per me, com’io per lei, nel caldo borro ?
chè tosto griderei : «Io vi soccorro»;
e fare’ l volentier, sì come quelli
che ne’ biondi capelli
ch’Amor per consumarmi increspa e dora
metterei mano, e piacere’ le allora.

S’io avessi le belle trecce prese,
che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
e non sarei pietoso ne cortese,
anzi farei com’ orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille.
Ancor ne li occhi, ond’ escon le faville
che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
guarderei presso e fiso,
per vendicar lo fuggir che mi face;
e poi le renderei con amor pace.

Canzon, vattene dritto a quella donna
che m’ha ferito il core e che m’ invola
quello ond’io ho più gola,
e dalle per lo cor d’una saetta;
che bell’ onor s’acquista in far vendetta.


LIBRO SETTIMO.
RIME VARIE DEL TEMPO DELL’ ESILIO

 CIV.

Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore ;
chè dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita.
Tanto son belle e di tanta vertute,
che ‘1 possente segnore,
dico quel ch’ è nel core,
a pena del parlar di lor s’ aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
e cui vertute ne beltä non vale.
Tempo fu già nel quale,
secondo il lor parlar, furon dilette ;
or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste così solette
venute son come a casa d’ amico ;
chè sanno ben che dentro e quel ch’ io dico.

Dolesi l’ una con parole molto,
e ‘n su la man si posa
come succisa rosa :
il nudo braccio, di dolor colonna,
sente l’oraggio che cade dal volto;
l’altra man tiene ascosa
la faccia lagrimosa :
discinta e scalza, e sol di sè par donna.
Come Amor prima per la rotta gonna
la vide in parte che il tacere è bello,
egli, pietoso e fello,
di lei e del dolor fece dimanda.
« Oh di pochi vivanda, »
rispose in voce con sospiri mista,
« nostra natura qui a te ci manda :
io, che son la più trista,
son suora a la tua madre, e son Drittura ;
povera, vedi, a panni ed a cintura. »

Poi che fatta si fu palese e conta,
doglia e vergogna prese
lo mio segnore, e chiese
chi fosser 1′ altre due ch’ eran con lei.
E questa, ch’ era si di pianger pronta,
tosto che lui intese,
più nel dolor s’ accese,
dicendo : « A te non duol de gli occhi miei ? »
Poi cominciò : « Sì come saper dei,
di fonte nasce il Nilo picciol fiume
quivi dove ‘1 gran lume
toglie a la terra del vinco la fronda :
sovra la vergin onda
generai io costei che m’ è da lato
e che s’ asciuga con la treccia bionda.
Questo mio bel portato,
mirando sè ne la chiara fontana,
generò questa che m’ è più lontana. »

Fenno i sospiri Amore un poco tardo ;
e poi con gli occhi molli,
che prima furon folli,
salutö le germane sconsolate.
E poi che prese l’ uno e l’ altro dardo,
disse : « Drizzate i colli :
ecco l’armi ch’ io volli ;
per non usar, vedete, son turbate.
Larghezza e Temperanza e l’ altre nate
del nostro sangue mendicando vanno.
Però, se questo è danno,
piangano gli occhi e dolgasi la bocca
de Ii uomini a cui tocca,
che sono a’ raggi di cotal ciel giunti; ”
non noi, che semo de l’etterna rocca :
chè, se noi siamo or punti,
noi pur saremo, e pur tornerà gente
che questo dardo farà star lucente. »

E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,
l’ essilio che m’ è dato, onor mi tegno :
che, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader co’ buoni è pur di lode degno.
E se non che de gli occhi miei ‘1 bei segno
per lontananza m’ è tolto dal viso,
che m’ have in foco miso,
lieve mi conterei ciò che m’ è grave.
Ma questo foco m’ have
già, consumato sì 1′ ossa e la polpa,
che Morte al petto m’ ha posto la chiave.
Onde, s’ io ebbi colpa,
più lune ha volto il sol poi che fu spenta,
se colpa muore perche 1′ uom si penta.

Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano,
per veder quel che bella donna chiude :
bastin le parti nude ;
lo dolce pome a tutta gente niega,
per cui ciascun man piega.
Ma s’ elli avvien che tu alcun mai truovi
amico di virtù, ed e’ ti priega,
fatti di color novi,
poi li ti mostra ; e ‘1 fior, ch’ è bel di fori,
fa disiar ne li amorosi cori.

Canzone, uccella con le bianche penne;
canzone, caccia con li neri veltri,
che fuggir mi convenne,
ma far mi poterian di pace dono.
Però nol fan che non san quel che sono :
camera di perdon savio uom non serra,
che ‘1 perdonare è bel vincer di guerra.


CV.

Se vedi li occhi miei di pianger vaghi
per novella pietà, che ‘1 cor mi strugge,
per lei ti priego che da te non fugge,
Signor, che tu di tal piacere i svaghi ;
con la tua dritta man, cioè, che paghi
chi la giustizia uccide e poi rifugge
al gran tiranno, del cui tosco sugge
ch’elli ha già sparto e vuol che ‘1 mondo allaghi,
e messo ha di paura tanto gelo
nel cor de’ tuo’ fedei, che ciascun tace :
ma tu, foco d’ amor, lume del cielo,
questa vertù che nuda e fredda giace
levala su vestita del tuo velo,
che sanza lei non è in terra pace.


CVI.

Doglia mi reca ne lo core ardire
a voler ch’ è di veritate amico ;
però, donne, s’ io dico
parole quasi contra a tutta gente,
non vi maravigliate,
ma conoscete il vil vostro disire;
chè la beltà ch’Amore in voi consente,
a vertù solamente
formata fu dal suo decreto antico,
contra ‘1 qual voi fallate.
Io dico a voi che siete innamorate
che se vertute a noi
fu data, e beltà, a voi,
e a costui di due potere un fare,
voi non dovreste amare,
ma coprir quanto di biltà v’ è dato,
poi che non c’ è vertù, ch’ era suo segno
Lasso! a che dicer vegno?
Dico che bei disdegno
sarebbe in donna, di ragion laudato,
partir beltà da sè per suo commiato.

Omo da sè vertu fatto ha lontana;
omo no, mala bestia ch’ om simiglia.
O Deo, qual maraviglia
voler cadere in servo di signore,
o ver di vita in morte!
Vertute, al suo fattor sempre sottana,
lui obedisce o lui acquista onore,
donne, tanto che Amore
la segna d’ eccellente sua famiglia
ne la beata corte:
lietamente esce da le belle porte,
a la sua donna torna;
lieta va e soggiorna,
lietamente ovra suo gran vassallaggio;
per lo corto viaggio
conserva, adorna, accresce ciò che trova
Morte repugna sì, che lei non cura.
O cara ancella e pura,
colt’ hai nel ciel misura;
tu sola fai segnore, e quest’ e prova
che tu se’ possession che sempre giova.

Servo non di signor, ma di vil servo
si fa chi da cotal serva si scosta.
Vedete quanto costa,
se ragionate l’ uno e l’ altro danno,
a chi da lei si svia :
questo servo signor tant’ è protervo,
che gli occhi ch’ a la mente lume fanno
chiusi per lui si stanno,
sì che gir ne convene a colui posta,
ch’ adocchia pur follia.
Ma perche lo meo dire util vi sia,
discendero del tutto
in parte ed in costrutto
più lieve, sì che men grave s’ intenda;
che rado sotto benda
parola oscura giugne ad intelletto;
per che parlar con voi si vole aperto:
ma questo vo’ per merto,
per voi, non per me certo,
ch’ abbiate a vil ciascuno e a dispetto,
chè simiglianza fa nascer diletto.

 Chi è servo e come quello ch’ è seguace
ratto a segnore, e non sa dove vada,
per dolorosa strada;
come l’ avaro seguitando avere,
ch’ a tutti segnoreggia.
Corre l’ avaro, ma più fugge pace:
oh mente cieca, che non pò vedere
lo suo folle volere
che ‘l numero, ch’ ognora a passar bada,
che ‘nfinito vaneggia!
Ecco giunta colei che ne pareggia:
dimmi, che hai tu fatto,
cieco avaro disfatto?
Rispondimi, se puoi altro che nulla.
Maladetta tua culla,
che lusingò cotanti sonni invano!
Maladetto lo tuo perduto pane,
che non si perde al cane!
chè da sera e da mane
hai raunato e stretto ad ambo mano
ciò che sì tosto si rifa lontano.

Come con dismisura si rauna,
così con dismisura si distringe:
questo è quello che pinge
molti in servaggio; e s’ alcun si difende,
non è sanza gran briga.
Morte, che fai ? che fai, fera Fortuna,
che non solvete quel che non si spende?
se ‘l fate, a cui si rende?
Non so, poscia che tal cerchio ne cinge
che di là su ne riga.
Colpa è de la ragion che nol gastiga.
Se vol dire «I’ son presa»,
ah com poca difesa
mostra segnore a cui servo sormonta!
Qui si raddoppia 1′ onta,
se ben si guarda là dov’ io addito,
falsi animali, a voi ed altrui crudi,
che vedete gir nudi
per colli e per paludi
omini innanzi cui vizio è fuggito,
e voi tenete vil fango vestito.

 Fassi dinanzi da l’ avaro volto
vertù, che i suoi nimici a pace invita,
con matera pulita,
per allettarlo a sè ; ma poco vale,
chè sempre fugge 1′ esca.
Poi che girato 1′ ha chiamando molto,
gitta ‘1 pasto ver lui, tanto glien cale;
ma quei non v’ apre 1′ ale:
e se pur vene quand’ eli’ e partita,
tanto par che li ‘ncresca
come ciò possa dar, si che non esca
dal benefizio loda.
I’ vo’ che ciascun m’ oda:
chi con tardare, e chi con vana vista,
chi con sembianza trista
volge il donare in vender tanto caro
quanto sa sol chi tal compera paga.
Volete udir se piaga?
Tanto chi prende smaga,
che ‘l negar poscia non li pare amaro.
Così altrui e sè concia l’ avaro.

 Disvelato v’ ho, donne, in alcun membro
la viltà de la gente che vi mira,
perchè l’ aggiate in ira;
ma troppo è più ancor quel che s’ asconde
perchè a dicerne è lado.
In ciascun è di ciascun vizio assembro,
per che amistà nel mondo si confonde;
che l’ amorose fronde
di radice di ben altro ben tira,
poi sol simile è in grado.
Vedete come conchiudendo vado:
che non dee creder quella
cui par bene esser bella,
esser amata da questi cotali;
che se beltà tra i mali
volemo annumerar, creder si pone,
chiamando amore appetito di fera.
Oh cotal donna pera
che sua biltà dischiera
da natural bontà per tal cagione,
e crede amor fuor d’ orto di ragione!

Canzone, presso di qui è una donna
ch’ è del nostro paese;
bella, saggia e cortese
la chiaman tutti, e neun se n’ accorge
quando suo nome porge,
Bianca, Giovanna, Contessa chiamando:
a costei te ne va chiusa ed onesta;
prima con lei t’ arresta,
prima a lei manifesta
quel che tu se’ e quel per ch’ io ti mando:
poi seguirai secondo suo comando.


CVII.

CECCO ANGIOLIERI A DANTE

 Lassar vo’ lo trovare di Becehina,
Dante Alighieri, e dir del Mariscalco :
ch’ e’ par florin d’ oro ed è di ricalco,
par zuccar caffettin ed è salina,
par pan di grano ed è di saggina,
par una torre ed è un vil balco,
ed è un nibbio e pare un girfalco,
e pare un gallo ed è una gallina.

Sonetto mio, vattene a Fiorenza,
dove vedrai le donne e le donzelle :
dì che ‘l su’ fatto è solo di parvenza. 
Ed eo, per me, ne conterò novelle
al bon re Carlo conte di Provenza ;
e per sto mo’ gli frizzarò la pelle.


CVIII.

CECCO ANGIOLIERI A DANTE

 Dante Alighier, s’ i’ son bon begolardo,
tu mi tien bene la lancia a le reni ;
s’ eo desno con altrui, e tu vi ceni ,
s’ eo mordo il grasso, e tu ne suggi il lardo ;
s’ eo cimo il panno, e tu vi freghi il cardo ;
s’ eo so’ discorso, e tu poco t’ affreni ;
s’ eo gentileggio, e tu messer t’ avveni ;
s’ eo so’ fatto romano, e tu lombardo.

Sì che, laudato Deo, rimproverare
poco pò l’ uno l’ altro di noi due :
sventura o poco senno cel fa fare.
E se di questo voi dicere piue,
Dante Alighier, i’ t’ avarò a stancare,
ch’ eo so’ lo pungiglione e tu se’ ‘I hue.


CIX.

RLSPOSTA DI MESSER GUELEO TAVIANI IN DIFESA DI DANTE

 Cecco Angelier, tu mi pari un musardo,
si tostamente corri, e non vi peni
deliberar, ma incontanente sfreni
come poledro o punto caval sardo.
Or pensi sia del ferrante al baiardo
che con Dante di motti tegni meni,
che di filosofia ha tante veni?
Tu mi pari piu matto che gagliardo.

Filosofi tesoro disprezzare
den per ragione, e lorn usanza fue
sol lo ‘ngegno in scienzia assottigliare.
Or queste sono le virtute sue ;
però pensa con cui dei rampognare :
chi follemente salta tosto rue.


 CX.

MESSER CINO DA PISTOIA A DANTE

 Dante, quando per caso s’ abbandona
lo disio amoroso de la sperrte,
che naseer fanno gli occhi del bei seme
di quel piacer che dentro si ragiona,
i’ dico, poi se morte le perdona
e Amore tienla piü de le due estreme,
che l’ alma sola, la, qual più non terne,
si può ben trasformar d’ altra persona.

E ciò mi fa dir quella ch’ è maestra
di tutte cose, per quel ch’ i’ sent’ anco,
entrato, lasso !, per la mia fenestra. 
Ma prima che m’ uccida il nero e il bianco,
da te, che sei stato dentro ed extra,
 vorre’ saper se ‘I mi’ creder e manco.


CXI .

RISPOSTA DI DANTE A MESSER CINO

Io sono stato con Amore insieme
da la circulazion del sol mia nona,
e so com’ egli affrena e come sprona
e come sotto lui si ride e gerne.
Chi ragione o virtù contra gli sprieme,
fa come que’ che ‘n la tempesta sona
credendo far cola dove si tona
esser le guerre de’ vapori sceme.

Però nel cerchio de la sua palestra
liber arbitrio già mai non fu franco,
sì che consiglio invan vi si balestra.
Ben può con nuovi spron punger lo fianco,
e qual che sia ‘1 piacer ch’ ora n’ addestra,
seguitar si convien, se 1′ altro è stanco.


CXII.

MESSER CINO DA PISTOIA AL MARCHESE MOROELLO MALASPINA

 Cercando di trovar minera in oro
di quel valor cui gentilezza inchina,
punto m’ ha ’l cor, marchese, mala spina,
in guisa che, versando il sangue, i’ moro.
E più per quel ched i’ non trovo ploro
che per la vita natural che fma :
cotal pianeta, lasso!, mi destina
che dov’ io perdo volentier dimoro.

E più le pene mie vi farie conte,
se non ched i’ non vo’ che troppa gioia
vo’ concepiate di ciò che m’ è noia.
Ben poria il mio segnor, anzi ch’ io moia
far convertir in oro duro monte,
c’ ha fatto già di marmo nascer forite.


CXIII.

RISPOSTA DI DANTE IN NOME DEL MARCHESE MOROELLO

Degno fa voi trovare ogni tesoro
la voce vostra sì dolce e latina,
ma volgibile cor ven disvicina,
ove stecco d’Amor mai non fè foro.
Io che trafitto sono in ogni poro
del prun che con sospir si medicina,
pur trovo la minera in cui s’ affina
quella virtù per cui mi discoloro.

Non è colpa del sol se l’orba fronte
nol vede quando scende e quando poia,
ma de la condizion malvagia e croia.
S’ i’ vi vedesse uscir de gli occhi ploia
per prova fare a le parole conte,
non mi porreste di sospetto in ponte.


CXIV.

DANTE A MESSER CINO DA PISTOIA

Io mi credea del tutto esser partito
da queste nostre rime, messer Cino,
chè si conviene omai altro cammino
a la mia nave più lungi dal lito :
ma perch’ i’ ho di voi più volte udito
che pigliar vi lasciate a ogni uncino,
piacemi di prestare un pocolino
a questa penna lo stancato dito.

Chi s’ innamora sì come voi fate,
or qua or là, e se lega e dissolve,
mostra ch’Amor leggermente il saetti.
Però se leggier cor così vi volve,
priego che con vertù il correggiate,
sì che s’ accordi i fatti a’ dolci detti.


CXV.

RISPOSTA DI MESSER CINO A DANTE

Poi ch’ i’ fu, Dante, dal mio natal sito
fatto per greve essilio pellegrino
e lontanato dal piacer più fino
ehe mai formasse il Piacer infinito,
io son piangendo per lo mondo gito
sdegnato del morir come meschino,
e s’ ho trovato a lui simil vicino,
dett’ ho che questi m’ ha lo cor ferito.

Nè da le prime braccia dispietate,
onde ’l fermato disperar m’ assolve,
son mosso perch’ aiuto non aspetti;
ch’ un piacer sempre me lega ed involve,
il qual conven che a simil di beltate
in molte donne sparte mi diletti.


CXVI.

Amor, da che convien pur ch’ io mi doglia
perchè la gente m’ oda,
e mostri me d’ ogni vertute spento,
dammi savere a pianger come voglia,
sì che ‘1 duol che si snoda
portin le mie parole com’ io ‘l sento.
Tu vo’ eh’ io muoia, e io ne son contento :
ma chi mi scuserà, s’ io non so dire
ciò che mi fai sentire ?
chi crederà ch’ io sia omai si colto ?
E se mi dai parlar quanto tormento,
fa, signor mio, che innanzi al mio morire
questa rea per me nol possa udire ;
chè, se intendesse ciò che dentro ascolto,
pietà faria men bello il suo bei volto.
 
Io non posso fuggir, ch’ ella non vegna
ne l’ imagine mia,
se non come il pensier che la vi mena.
L’ anima folle, che al suo mal s’ ingegna,
com’ ella è bella e ria
così dipinge, e forma la sua pena:
poi la riguarda, e quando ella è ben piena
del gran disio ehe de li occhi le tira,
incontro a sè s’ adira,
c’ ha fatto il foco ond’ ella trista incende.
Quale argomento di ragion raffrena,
ove tanta tempesta in me si gira ?
L’ angoscia, che non cape dentro, spira
fuor de la bocca sì ch’ ella s’ intende,
e anche a li occhi lor merito rende.

La nimica figura, che rimane
vittoriosa e fera
e signoreggia la vertù che vole,
vaga di se medesma andar mi fane
colà dov’ ella e vera,
come simile a simil correr sole.
Ben conosco che va la neve al sole,
ma più non posso : fo come colui
che, nel podere altrui,
va co’ suoi piedi al loco ov’ egli è morto.
Quando son presso, parmi udir parole
dicer «Vie via vedrai morir costui! ».
Allor mi volgo per vedere a cui
mi raccomandi; e ‘ntanto sono scorto
da li occhi che m’ ancidono a gran torto.

Qual io divegno sì feruto, Amore,
sailo tu, e non io,
che rimani a veder me sanza vita ;
e se 1′ anima torna poscia al core,
ignoranza ed oblio
stato e con lei, mentre ch’ ella è partita.
Com’ io risurgo, e miro la ferita
che mi disfece quand’ io fui percosso,
confortar non mi posso
sì ch’ io non triemi tutto di paura.
E mostra poi la faccia scolorita
qu;xl fu quel trono che mi giunse a dosso ;
che se con dolce riso è stato mosso,
lunga fiata poi rimane oscura,
perchè lo spirto non si rassicura.

Così m’ hai concio, Amore, in mezzo l’alpi,
ne la valle del fiume
lungo il qual sempre sopra me se’ forte :
qui vivo e morto, come vuoi, mi palpi,
merzè del fiero lume
che sfolgorando fa via a la morte.
Lasso! non donne qui, non genti accorte
veggio, a cui mi lamenti del mio male :
se a costei non ne cale,
non spero mai d’ altrui aver soccorso.
E questa sbandeggiata di tua corte,
signor, non cura colpo di tuo strale :
fatto ha d’ orgoglio al petto schermo tale,
ch’ogni saetta lì spunta suo corso ;
per che l’ armato cor da nulla è morso.

O montanina mia canzon, tu vai :
forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
che fuor di sè mi serra,
vota d’ amore e nuda di pietate ;
se dentro v’ entri, va dicendo : « Omai
non vi può far lo mio fattor più guerra :
là ond’ io vegno una catena il serra
tal, che se piega vostra crudeltate,
non ha di ritornar qui libertate ».


CXVII.

Per quella via che la bellezza corre
quando a svegliare Amor va ne la mente,
passa Lisetta baldanzosamente,
come colei che mi si crede torre.
E quando è giunta a pie di quella torre
che s’ apre quando l’ anima acconsente,
odesi voce dir subitamente :
« Volgiti, bella donna, e non ti porre ;
però che dentro un’ altra donna siede,
la qual di signoria chiese la verga
tosto che giunse, e Amor glile diede ».
Quando Lisetta accommiatar si vede
da quella parte dove Amore alberga,
tutta dipinta di vergogna riede.


CXVIII.

MESSER ALDODRANDINO MEZZABATI DA PADOVA A PROPOSITO DEL PRECEDENTS SONETTO

 Lisetta voi de la vergogna storre
e dargli guida nel camin dolente,
che la conduca fuor di cruda qente
en forza di colui che tosto acorre.
Beltà di donna sì se vuole opporre
alla schifezza che di viltà sente :
come la voce fusse conoscente
dirollo, poi ch’Amor me lo fa sporre.

Lo sir che guarda il poggio d’ esta sede,
nanzi che dentro al nostro signor perga,
il al coridor ch’ è giunto poco crede;
e quando venne al porto di mercede,
la voce disse : « Alla rocca non s’ erga
it in fin a tanto che ‘l sir nol concede».


 APPENDICE.
RIME DI DUBBIA ATTRIBUZIONE

 I.

Amore e monna Lagia e Guido ed io
possiamo ringraziare un ser costui
che ‘nd’ ha partiti, sapete da cui ?
Nol vo’ contar per averlo in oblio;
poi questi tre più non v’ hanno disio,
ch’ eran serventi di tal guisa in lui,
che veramente più di lor non fui
imaginando ch’ elli fosse iddio.

Sia ringraziato Amor, che se n’ accorse
primeramente ; poi la donna saggia,
che ‘n quello punto li ritolse il core ;
e Guido ancor, che n’ è del tutto fore ;
ed io ancor che ‘n sua vertute caggia :
se poi mi piacque nol si crede forse.


II.

In abito di saggia messaggiera
movi, ballata, senza gir tardando
a quella bella donna a cui ti mando,
e digli quanto mia vita è leggiera.

Comincerai a dir che li occhi mei
per riguardar sua angelica figura
solean portar corona di desiri :
ora, perche non posson veder lei,
li strugge Morte con tanta paura,
c’ hanno fatto ghirlanda di martiri.
Lasso! non so in qual parte li giri
per lor diletto ; sì che quasi morto
mi troverai, se noil rechi conforto
da lei; ond’ eo ti fo dolce preghiera.


III.

[Questo si è proemio d’una ballata. Per darla meglio ad intendere,
si dispone dinanzi in questa forma, distinguendo poi
a parte a parte la ballata e la sua sentenza].

1 A quella in cui l’anima mia amorosamente si nutrica, per
la cui bellezza Amore in me prova universalmente le virtù
sue, io che son d’amor armato sotto ‘1 velo de la vostra
2 luce mi raccomando. Ecco, donna mia, che sopra l’amorosa
nostra materia onde la penna d’Amor giä vi scrisse ad onor
di voi e eonsolazione di me, che vostro sono, dette queste
parole per ordine di queste rime, le quali voi piaccia di
leggere; e non vi de’ increscere, in quanto che da voi e da
vostre bellezze levarono il lor principio, e io medesimamente
scrivo le rime e le lor sentenzie per ordine che ‘1 suo ingegno
ditta.
3 Questa e una ballatetta d’una risposta con tre stanze, e
comincia così:
Donne, i’ non so di ch’ i’ mi prieghi Amore,
ch’ ello m’ ancide, e la morte m’ è dura,
e di sentir lui meno ho più paura.

Perchè parlar di voi non si convene se non a donne, ragiono sol con loro: po’ sentendo ch’Amor mi soverchia tanto con la vostra vaghezza, che, se la vertù sua non scema, a me convien morire, e s’ ella mi si facesse men sentire, vorre’ anzi morire, sì ch’ io non so di ch’ io mi prieghi lui : ma a voi piaccia d’aver merze di me.

Nel mezzo de la mente mia risplende
un lume de’ belli occhi ond’ io son vago,
che l’ anima contenta.
Ver è ch’ ad ora ad ora indi discende
una saetta, che m’ asciuga il lago
del cor pria che sia spenta :
ciò face Amor qual volta mi rammenta
la dolce mano e quella fede pura
che doveria mia vita far sicura.

Questa è, donna mia, la prima stanza, la quale pone tre
parti ; dove, dividendosi per ordine, mostra nella prima
parte come il lume de’ belli occhi vostri luce nella mia mente,
sicche di quel lume l’anima mia si conforta, perchè molte
delle mie pene periscono. Nella seconda parte pono come di
quel lume scende una saetta calda di tanto ardore, ch’asciuga
il lago delle lagrimo del mio cuore ; perche s’io non posso
venire a torre quella che promessa mi fu, non e meraviglia
se mia vita si convert« in lagrime, che veramente si possono
chiamar lago. La terza parte pone quando questo mi diviene
e chi ’l muove; e dice che ‘1 fa Amore, quando mi rammenta
la dolce mano che mi promise lo bene che ne’ vinti pensiori
chiede la mia vaghezza.

Se quella in cui li mie’ sospir si stanno,
vedesse siccom’ io la veggio bella
nell’ allumata mente,
vedesse li pensier, ch’ al cor sen vanno,
accendersi di lei come facella,
ben sen dorria sovente.
Ma ciò non può saper se non chi ‘1 sente,
s’Amor [nol] fa ; e quel sen dà men cura,
quanto l’ anima mia più nel scongiura.

Dico, madonna, che ‘n questa altra stanza si truova la
sua vera sentenza divisa in cinque parti. Nella prima parte
pone di cui favella e di cui beltä si muovono i miei sospiri
Nella seconda parte pone com’ io vi veggio e dove. Nella
terza parte pone e fa essemplo de’ miei pensieri, e dov’ elli
vanno ; chè come ‘1 sole viene ordinato dal suo signore a
dar lame delle cose del dì, [po’] che son più dengne che quelle
della scurità de la notte, e così i miei pensieri, creati da lui
conviene che si convegnano solo nel cuor mio, dove la
vostra bellissima e diletta imagine e pinta. Ne la quarta parte
pone che ve ne doverebbe sotto una vista di pietà dolere,
con ciò sia cosa ch’ogni uomo e ogni donna, che son sotto
la forza d’Amore, debbono essere uno medesimo. Per questa
ragione che l’uomo è uno e la donna è una, questi son due ;
ma se l’uomo si dà a la donna, sicchè ciò che la donna vuole
voglia egli, e ciò che la donna odia odii elli, vuole Amore
che questi siano due e uno sotto la vertix sua: onde si io son
quelli, chè veramente ciò che la vostra eccellentissima vertù
e conoscenza vuole, e io ; e se vi piace la vita mia, e io amo di
vivere ; e se vi piace la morte, e io la chero, in quanto che
a me doglia come di vostra cosa; chèd io son vostro e non
mio, e voglio esser mio, in quanto ch’ogni cosa che voi avete,
i’ vorrei che mi si convenisse d’averla. Nella quinta parte
pone come quello ch’ i’ sento non può sapere se non quella
persona a cui Amore li facesse sentire ; dove ancora l’anima
mia si duole, mostrando che de’ prieghi suoi elli non si dea
[cura], come chiedere’ quello disio che mi fa, e ha fatto,
vostro e suo.

O donne, che d’Amore angeli siete,
quando questa gentil a voi s’ appressa
di me ricordi a voi.
Guardate. infra le belle, e lei vedrete,
che li atti suoi diranno « Quest’ è dessa
che sì adorna noi»:
fate volgere a me li pensier suoi
pur con sospiri, che la parladura
di quel che fece lei nolle sia scura.

In questa stanza pone la sentenzia delle donne. Nella
prima parte, per angeli d’Amore; e così veramente possono
e debbono essere chiamate angeli che li angeli celestiali;
li quali dell’empirio cielo dove il nostro Creatore imperia e
regge, mossono nel principio de la vostra venuta in questa
vita in compagnia della vostra persona ad annunziare le
bellezze vostre all’umana generazione ; e così veramente le
donne hanno due cose propie d’operare, la prima de lodare
Amore, la seconda d’annunziare l’opera della sua potenzia in
luogo degno, propiamente in parte dove risplende la luce
del vostro lume. La seconda, come vi conserva tra le belle,
non per lor vertù, ma [per] quelli atti belli, anzi bellissimi, che
mi veggion vago e adorneranno loro, sentendosi far di degne
degnissime. Quello che natura a loro per loro acconsentio,
conosceranno poi, e allora pregheranno di quelle pene. La
terza parte, che se ‘1 parlare della mia vita vi fosse scuro o
grave, che per me vi sia lieve sospirar di me, che vostro sono.
Oma’ vi piaccia d’aver merzè di me, che la vita mia non
muoia solamente ; e perciò vi piaccia di mostrare ch’ella vi
sia in grado nella risposta di questa lettera, che sanza la
vostra consolazione non può durare l’affannata vita ne’ martiri
d’Amore.


IV.

Deh piangi meco tu, dogliosa petra,
perchè s’ è Petra en così crudel porta
entrata, che d’ angoscia el cor me ‘npetra ;
deh piangi meco tu che la tien morta !
Ch’ eri già bianca, e or se’ nera e tetra,
de lo colore suo tutta distorta ;
e quanto più ti priego, più s’ arretra
Petra d’ aprirme, ch’ io la veggia scorta.
Aprimi, petra, sì ch’ io Petra veggia
come nel mezzo di te, crudel, giace,
che ‘l cor mi dice ch’ ancor viva seggia.
Che se la vista mia non è fallace,
il sudore e 1′ angoscia già ti scheggia….
petra è di fuor che dentro petra face.


V.

Aï faux ris, pour quoi traï aves
oculos meos ? Et quid tibi feci,
che fatta m’ hai così spietata fraude ?
Iam audi[vi]ssent verba mea Greci !
E selonch autres dames vous saves
che ‘ngannator non è degno di laude.
Tu sai ben come gaude
miserum eius cor qui prestolatur :
je li sper anc, e pas de moi non cure.
Ai Dieus, quante malure
atque fortuna ruinosa datur
a colui che, aspettando, il tempo perde,
ne già mai tocca di fioretto il verde!

Conqueror, cor suave, de te primo,
che per un matto guardarnento d’ occhi
vous non dovris avoir perdu la loi;
ma e’ mi piace che li dardi e i stocchi
semper insurgant contra me de limo,
dount je seroi mort, pour foi que je croi.
Fort me desplait pour moi,
ch’ i’ son punito ed aggio colpa nulla ;
nec dicit ipsa : « malum est de isto »;
unde querelam sisto.
Ella sa ben che se ‘1 mio cor si scrulla
a penser d’ autre, que d’ amour lesset,
le faux cuers grant paine an porteret.

Ben avrà questa donna cor di ghiaccio
e tant d’ aspresse que, ma foi, est fors,
nisi pietatem habuerit servo.
Bien set Amours, se je non ai socors,
che per lei dolorosa morte faccio
neque plus vitam, sperando, conservo.
Ve omni meo nervo,
s’ elle non fet que pour soun sen verai
io vegna a riveder sua faccia allegra.
Ahi Dio, quant’ è integra !
Mes je m’ en dout, si gran dolor en ai :
amorem versus me non tantum curat
quantum spes in me de ipsa durat.

Cianson, poves aler pour tout le monde,
namque locutus sum in lingua trina,
ut gravis mea spina
si saccia per lo mondo. Ogn’ uomo senta :
forse pietà n’ avrà chi mi tormenta.
[Testo costituito da VINCENZO CRESCINI]


VI .

A SENNUCCIO DI BENUCCIO DI SENNO DEL BENE PARLANDO IN PERSONA D’ AMORE

Sennuccio, la tua poca personuzza,
onde di’ che deriva il desiuzzo
il qual ti fa portare il cappucciuzzo
così polito in su 1′ assettatuzza,
quando tu ti vestisti d’ una uzza,
ch’ era vergata d’ uno scaccatuzzo,
e che n’ andavi in sul tuo ronzinuzzo,
spesso ambiando con la poc[hett]uzza,
io mi pensava di darti copiuzza
di quella donna ehe miri fisuzzo,
credendo avessi alcuna bontaduzza ;
e t’ Tio trovato memoria scioccuzza,
sì ch’ io non ti vo’ piü per fedeluzzo,
così sa’ far di me mala scusuzza!


VII.

Iacopo, i’ fui, ne le nevicate alpi,
con que’ gentili ond’ è nata quella
ch’Amor ne la memoria ti suggella
e per che tu, parlando anzi lei, palpi.
Non credi tu, perch’ io aspre vie scalpi,
ch’ io mi ricordi di tua vita fella
sol per costei che la diana Stella
criò e donde tu mai non ti parti ?
Per te beato far mossi parole
a’ suo’ propinqui del lontano essilio
che cercar pensa per 1′ altrui valore.
Donde non nacquer canti nè carole,
ma in tra loro facien lungo concilio :
non so ‘l deliberar, ma so ‘l dolore.
Dico che tutti si dolien per lei,
dicendo: « Dove perderem costei ? >>


VIII.

DANTE ( ? ) A GIOVANNI QUIRINI

Nulla mi parve mai più crudel cosa
di lei per cui servir la vita [smago],
chè ‘l suo desio nel congelato lago
ed in foco d’ amore il mio si posa.
Di così spietata e disdegnosa
la gran bellezza cli veder m’ appago ;
e tanto son del mio tormento vago,
ch’ altro piaeere a li ocelli miei non osa.
Nè quella ch’ a veder lo sol si gira,
e ‘1 non mutato amor mutata serba,
ebbe quant’ io già mai fortuna acerba.
Dunque, Giannin, quando questa superba
convegno amar fin che la vita spira,
alquanto per pietà con me sospira.


IX.

RISPOSTA DI GIOVANNI QUIRINI

 Non siegue umanità, ma plu che drago
crudel se mostra e fiera e venenosa
la donna tua, salvagia e orgogliosa,
de cui solo a pensar mia vita ismago.
Però dovresti la sua bella imago,
che tiene in se la tua morte nascosa,
fugir sì come oscura e tenebrosa,
Se non de sua beltà chiamarti pago.

E se pur te agrada a cotant’ ira
sogietto star, passendo d’ amara erba
el tuo desio che in amor si conserba,
per le presenti mie rimate verba,
qual fu ad Oreste ne la insania dira
Pillade, me offro a te fin a la pira.


X.

DANTE (O CINO ?) A BERNARDO DA BOLOGNA

Bernardo, io veggio ch’ una donna vene
al grande assedio della vita mia
irata sì, che accende e caccia via
tutto ciò che 1′ aiuta e la sostene ;
onde riman lo cor, ch’ è pien di pene,
senza, soccorso e senza compagnia,
e per forza conven che morto sia
per un gentil disio ch’Amor vi tene.

Questo assedio grande ha posto Morte,
per conquider la vita, intorno al core,
che cangiò stato quando ‘1 prese Amore
per quella donna ehe si mira forte,
come colei che sil pone in disnore:
ond’ assalir lo ven, sì ch’ e’ si more


XI.

[DI DANTE O DI CINO DA PISTOIA ?]

Se ‘l viso mio a la terra si china
e di vedervi non si rassieura,
io vi dico, madonna, che paura
lo face, che di me si fa regina;
perchè la bi1tà vostra, peregrina
qua giù fra noi, soverchia mia natura,
tanto che quando ven per avventura
vi miro, tutta mia vertù ruina:

sì che la morte, che porto vestita,
combatte dentro a quel poco valore
che mi rimane, con piogge di troni.
Allor comincia a pianger dentro al core
lo spirito vezzoso de la vita,
e dice : «Amore, o perchè m’ abbandoni?»


XII.

[ DI CINO DA PISTOIA ?]

Io sento pianger l’ anima nel core,
sì che fa pianger li occhi li soi guai,
e dice : «Oh lassa me, ch’ io non pensai
che questa fosse di tanto valore!
che per lei veggio la faccia d’Amore
vie più crudele ch’ io non vidi mai,
e quasi irato mi dice: ‘Che fai
dentro a questa persona che si more?’

Dinanzi a li occhi mei un libro mostra,
nel qual io leggo tutti que’ martiri
che posson far vedere altrui la morte.
Poscia mi dice: ‘Misera! tu miri
là dove è scritta la sentenzia nostra
ditratta del piacer di costei forte’.»


XIII.

[ DI CINO DA PISTOIA ?]

Non v’ accorgete voi d’ un che si smore
e va piangendo, sì si disconforta ?
Io prego voi, se non vi sete accorta,
che lo miriate per lo vostro onore.
E’ si va sbigottito, in un colore
che ‘l fa parere una persona morta,
con tanta pena che ne li occhi porta,
che di levarli già non ha valore.

E quando alcun pietosamente ‘l mira,
lo cor di pianger tutto li si strugge,
el’ anima sen dol sì che ne stride:
e se non fosse ch’ elli allor si fugge,
sì alto chiama voi quand’ ei sospira,
ch’ altri direbbe : «Or sappiam chi l’ ancide».


XIV.

[DI CINO DA PISTOIA ?]

Questa donna che andar mi fa pensoso
porta nel viso la vertù d’Amore,
la qual fa disvegliar altrui nel core
lo spirito gentil, se v’ è nascoso.
Ella m’ ha fatto tanto pauroso,
poscia ch’ io vidi lo dolce signore
ne li occhi soi con tutto il su’ valore,
ch’ io le vo presso e riguardar non 1′ oso.

E s’ avvien ciò, ched i’ quest’ occhi miri,
io veggio in quella parte la salute,
che lo ‘ntelletto mio non vi pò gire.
Allor si strugge sì la mia vertute,
che l’ anima che move li sospiri
s’ acconcia per voler del cor fuggire.


XV.

[DI CINO DA PISTOIA ?]

Poi che sguardando il cor feriste in tanto ,
di grave colpo, ch’ io non batto vena,
Dio, per pietà, or deali alcuna lena,
che ‘l tristo spirto si rinvegna alquanto.
Or non vedete consumar in pianto
gli occhi dolenti per soperchia pena ?
la qual sì stretto a la morte mi mena,
che già fuggir non posso in alcun canto.

Vedete, donna, s’ io porto dolore,
e la mia voce ch’ è fatta sottile,
chiamando a voi merce sempre d’ amore :
e s’ el v’ aggrada, donna mia gentile,
che questa doglia pur mi strugga ‘1 core,
eccomi apparecchiato servo umile.


XVI.

[DI CINO DA PISTOIA ?]

Io non domando, Amore,
fuor che potere il tuo piacer gradire ;
così t’ amo seguire
in ciascun tempo, dolce il mio signore.

Eo son in ciascun tempo ugual d’ amare
quella donna gentile
che mi mostrasti, Amor, subitamente
un giorno, che m’ entrò sì ne la mente
la sua sembianza umile,
veggendo te ne’ suoi begli occhi stare,
che dilettare il core
da poi non s’ è voluto in altra cosa
fuor che ‘n quella amorosa
vista ch’ io vidi rimembrar tuttore.

Questa membranza, Amor, tanto mi piace
e sì 1′ ho imaginata,
ch’ io veggio sempre quel ch’ io vidi allora ;
ma dir non lo poria, tanto m’ accora
che sol mi s’ è posata
entro a la mente, però mi do pace ;
chè ‘1 verace colore
chiarir non si poria per mie parole.
Amor, come si vole,
dil tu per me là ‘v’ io son servitore.

Ben deggio sempre, Amore,
rendere a te onor, poi che desire
mi desti d’ ubidire
a quella donna, ch’ è di tal valore.


XVII .

[DI CINO DA PISTOIA ?]

Lo sottil ladro che ne gli occhi porti
vien dritto a 1′ uom per mezzo de la faccia,
e prima invola il cor ch’ altri lo saccia,
passando a lui per Ii sentier più accorti.
Tu ch’ a far questo 1′ aiuti e conforti,
però che sospirando si disfaccia,
fuggendo mostri poi che ti dispiaccia,
sì che ‘n tal guisa n’ ha’ già quasi morti.

Li spiriti dolenti disviati,
che n’escon de lo cor, che trovan meno,
non domandan se non che tu mi guati.
Ma tu se’ micidiale, e hai sì pieno
l’ animo tuo di pensier sì spietati,
ched ognun par che sia crudel veleno.


XVIII.

La gran virtù d’Amore e ‘l bel piacire
che nel mio cor di voi, mia donna, è nato
m’ ha fedelmente in vo’, donna, tomato,
ch’ i’ v’ amo e voi sempre vo’ servire,
perchè più bella siete, al mio parire,
d’ ogni altra donna di pregio laudato;
saggia, gentile, core aumiliato,
ciò che sguardate fate ringioire.

Poi conoscete ch’ i’ v’ ho dato il core
e siete donna di tanta valenza,
degnate me tener per servitore.
Merzè vi chero a vostra provedenza,
ch’ i’ senta gioia per alcun sentore
ch’ io sie servente a vostra ubidienza.


XIX.

DANTE [?] AD ALTRO RIMATORE

Visto aggio scritto e odito cantare
d’Amor, che ‘nfiamma ciascun suo servente:
e tal lodarsi d’esso, e tal biasmare
si sforza ciaschedun suo convenente;
ch’ alcun gioioso diven per amare,
e altri amando languisce sovente:
se ciò diven d’Amor nol so pensare
o d’altra cosa che d’amor non sente.

Perciò ritorno a voi, cortese e saggio,
che mi mandiate novelle d’Amore
e come avviene ciò che ditto v’ aggio.
Parmi che di battaglie di signore
veng’ a ciascun cui d’Amor cheriraggio,
che d’Amor dica s’ ha bene o dolore.


XX.

DANTE [?] A CHIARO DAVANZATI

Tre pensier aggio onde mi vien pensare,
e ovvi incluso tutto il mio sapere;
e ciaschedun per sè mi dà penare,
comunemente fannomi morere.
L’ uno m’ afferrna pur ch’ io deggia amare
la bella a cui donato aggio ‘1 volere;
ed io [‘l con]sento, e nol voglio obliare,
che non potria senz’ ello gioia avere.

Ne gli altri due non so prender fidanza:
l’ un meco ardisce e fammi coraggioso
ched io d’amor richieda la mi’ amanza;
l’altro mantiene il cherir dubitoso.
Ond’ io ti priego, Chiaro, per tua orranza,
che mi consigli del men dubitoso.


XXI.

RISPOSTA DI CHIARO.

 Per vera esperienza di parlare
sento ch’avete ne lo cor podere
di signoria d’Amore desiare
e d’ esser servo a donna con piacere ;
per che le tre nomate cose pare,
le due dottando, fannovi dolere:
ma, ciò faccendo, vien da fermo amare,
ch’ amor non fora bon senza fernere.

Però consiglio vostra desianza
metter avanti ciò, che, il cor voglioso
servendo, richiedete vostr’ amanza;
che nulla fu di cor sì orgoglioso,
s’ un suo servente è pien d’ umilianza,
che ‘l core suo non fusse piatoso.


XXII.

REPLICA DI DANTE [?] A CHIABO

Già non m’agenza, Chiaro, il dimandare
ma’ che m’agenza amare e non cherere,
chè nullo uom deve sua donna pregare
di cosa che può lei danno tenere;
ma desioso nel desio stare
d’ ora d’ amore, e in ciò mai permanere,
che lo desio fa 1′ uomo migliorare,
che ‘l più malvagio isforza di valere.

E quel che viene in su la dilettanza
è di valer non mai sì desioso;
perciò in cherir non fermo mia speranza.
Ciò prova augel che più canta amoroso:
se vien che compia la sua disianza,
fi’ del cantar che sembra altrui noioso.


XXIII .

RISPOSTA DI CHIARO.

Se credi per beltate o per sapere
la donna ch’ ami sia d’ amor si accesa,
ch’ ella ti dica ‘ sì ‘ senza cherere,
di ciò ch’ i’ ho detto mi puoi far ripresa.
E s’ el ti piace pur stare a vedere,
non faccio a ciò c’ hai detto mai contesa;
ma era mia credenza fermo avere
ch’ amassi, come gli altri, a buona attesa,

credendo, per mercè capere in essa
o per servire, che facessi tanto
che lei, cherendo, fossi d’ aver degno.
Chè buona donna a Dio s’ ene demessa,
l’ amanza d’ uom carnale e di tal pianto;
a null’ altra 1’amor non è ‘n disdegno.


XXIV.

DANTE [?] A PUCCIO BELLONDI

Saper vorria da voi, nobile e saggio,
ciò che per me non son ben conoscente.
In due voler travagliami il coraggio,
e combattuto son da lor sovente:
l’ un vol ch’ io ami donna di paraggio,
cortese, saggia, bella e avvenente;
l’ altro, ha di me ver lui par signoraggio,
vol che di lei non sia benevogliente.

Ond’ lo non saccio, d’ ogni virtù sire,
a qual m’apprenda e deggia dar lo core:
così m’ hanno levato lo sentire!
Acciò richero voi, di gran valore,
che non v’aggrevi di mandarmi a dire
in qual m’ affermi per simii tenire.


XXV.

RISPOSTA DI PUCCIO

 Così com ne l’ oscuro alluma il raggio
del sol quando vi fere, similmente
vostro sapere l’ animo, ov’ ha ombraggio
e combattuto son da lui sovente;
ond’io mi maraviglio (se per saggio,
per me provare s’ io non saccio niente,
non lo facete) come l’ avvantaggio
ch’ e ‘n voi del senno del mio sia cherente.

Ma poi vi piace, e per voi ubbidire,
diraggio ciò che mi sembia d’Amore:
solo si pon dov’ è ‘l suo desire;
non cura del più bel nè del migliore,
poi c’ ha sorpreso lo dolce abbellire
ch’ avrà mostrato tornar in amore.


XXVI.

De gli occhi di quella gentil mia dama
esce una vertù d’ amor sì pina,
ch’ ogni persona che la ve ‘ s ‘ inchina
a veder lei, e mai altro non brama.
Beltà e Cortesia sua dea la chiama,
e fanno ben, che l’ è cosa sì fina,
ch’ ella non par umana, anti divina,
e sempre sempre monta la sua fama.

Chi l’ ama come pd esser contento
guardando le vertù che ‘n lei son tante !
E s’ tu mi dici : « come ‘1 sai ? », che ‘1 sento.
Ma se tu mi dimandi e dici : « quante ? »,
non ti so dire, chè non son pur cento,
anti più d’ infinite ed altrettante.


XXVII.

De’ tuoi begli occhi un molto acuto strale
m’ è nel cor fitto, e oltre più d’ un’ oncia,
sì che mi fora meglio ogni altro male,
secondo ch’Amor dentro mi rinoncia.
Oimè, perchè venisti così acconcia
lo dì ch’ i’ ebbi quel colpo mortale,
che vita e ogni stato mi disconcia
e per campar nulla cosa mi vale ?

I ‘ ti scontrai per quel che nel cor porto,
e perchè mai de la tua dolce vista
non fosse allegra 1′ anima mia trista.
Che se quella pietà ch’ amor racquista
per lei senza veder non s’ ha conforto,
e i’ ho perduto questo, ond’ io son morto.


XXVIII.

Non piango tanto il non poter vedere
quella che di mia vita era nutrice,
quanto per tema non sia sdegnatrice
di mia dimora, ch’ è contra volere,
pensando che ciascun om de’ savere
che mal pittura sta senza vernice,
chè no ha stabilità : cosi mi dice
s lo cor c’ ha perso lo su’ bei piacere.

Sì che ‘n questo pensando si conduce
la vita a morte, e spesso la riehiama
dicendo : « Sola tu sei la mia luce ».
Sentendo ciò, quello spirito ch’ ama
vien con conforto e dice : « Sempre duce
fia del tu’ amor quella che ‘l tu’ cor brama »


XXIX.

Molti volendo dir che fosse Amore
disser parole assai, ma non potero
dir di lui cosa che sernbrasse il vero,
nè diffinir qual fosse il suo valore.
Ben fu alcun che disse ch’ era ardore
di mente imaginato per pensiero ;
e alcun disse ch’ era desidero
di voler nato per piacer del core.

lo dico che Amor non è sustanza,
nè cosa corporal ch’ abbia figura,
anzi è passione in disianza ;
piacer di forma dato per natura,
sì che ‘l voler del core ogni altro avanza :
e questo basta fin che ‘1 piacer dura.


XXX.

Quando il consiglio tra gli uccei si tenne,
di nicistà convenne
che ciascun comparisse a tal no\’ella ;
e la cornacchia maliziosa e fella
pensò mutar gonnella,
e da molti altri uccei accattö penne ;
e addobbossi, e nel consiglio venne :
ma poco si sostenne,
perchè parea sopra gli altri bella ;
e l’ un domandò a 1′ altro : « Chi è quella ? »,
sì che finalmente ella
fu conosciuta. Or odi che n’ avvenne.

Che tutti gli altri uccei le fur dintorno,
si che sanza soggiorno
la pelar sì, ch’ ella rimase ignuda ;
e l’ un dicea: « Vedi bella druda! »,
dicea l’ altro : « Ella muda » ;
e così la lasciaro in grande scorno.
Similemente divien tutto giorno
d’ uom che si fa adorno
di fama o di vertù ch’ altrui dischiuda,
che spesse volte suda
de l’ altrui caldo, tal che poi agghiaccia.
Dunque beato chi per sè procaccia


Recommended Citation: Alighieri, Dante. Rime. Le opere di Dante : testo critico della Società dantesca italiana. Ed. Michele Barbi. Firenze: R. Bemporad, 1921.

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Published in partnership with Columbia University Libraries